Cambogia
Dicono che quando il male s’impossessa di un’anima il bene lotta per ricacciarlo indietro. Dicono che laddove la sofferenza è grande, la voglia di vivere lo è ancora di più. Visitare la Cambogia è come sentire l’odore del sangue che ancora sgorga da una ferita maledetta di un uomo che brama vita e che non vuole smettere di sognare e sorridere. La ferita è quella di un paese dilaniato da una guerra assurda e recente, fratricida e inspiegabile. Il sorriso è quello delle famiglie delle palafitte e dei villaggi galleggianti, degli uomini che vendono cibo a ogni angolo delle città, dei bambini che s’incontrano nelle strade, delle maestre che ti accolgono nelle scuole, delle mamme che vendono souvenir dopo aver camminato per raggiungere i templi dove incontrano i turisti.
Già, i templi. Meravigliose opere d’arte sospese tra passato e presente e proiettate in un futuro senza tempo, come la bellezza e la magia che racchiudono. Angkor Wat è un’emozione da vivere quando albeggia, e il sole alza il sipario su una cartolina che resta nel cuore e nella mente, da guardare fino a stancarsene, da visitare, e poi da osservare ancora prima di andar via, perché non si smette mai di aver voglia di innamorarsi. Il fantastico Bayon, poi Angkor Thom, Ta Keo, Ta Prohm, Banteay Kdei, Srah Srang, Prasat Kravan, fino al tramonto in cima al Pre Rup. Il giorno dopo ripartire dal Preah Khan, proseguire con il Neak Pean, il Ta Som, il Meboun, il Banteay Srei, il Banteay Samre, lo spettacolare Banteay Srei. Tutti simili, eppure tutti diversi, uno slancio del popolo induista verso dio in una pacifica e liberatoria commistione con una natura benigna, fatta di alberi maestosi, di radici e tronchi giganteschi, di cunicoli affascinanti.
Siem Reap è il cuore della Cambogia, la base da cui inizia l’esplorazione dei templi, ma anche del villaggio Kompong Khleang, sulle sponde del lago Tonle Sap. Tra le palafitte si scorgono uomini poveri di denari, ma ricchi di dignità e coraggio. Poi, mentre il sole tramonta, ci si avvicina alle case galleggianti del lago, quasi a toccarle, come a sussurrare alle porte di questa comunità chiedendo il permesso di entrare, di osservare, di ascoltare. Ma sottovoce, in punta di piedi, per paura di violare un mondo che affascina ma che non ci appartiene. Siem Reap è anche la seconda città del paese, che di notte entusiasma nella movida dell’elettrizzante Pub Street e di giorno conquista per la candida dolcezza dei bambini delle scuole, tutti uguali di rosa vestiti, e delle loro maestre che aprono la porticina di un quadro che sembra uscito da un altro mondo e da un’altra epoca, come fosse sterile alle odierne ossessioni.
La Cambogia è anche una visita a Battambang, al suo centro che ne è il cuore pulsante, e ai suoi dintorni. E’ divertirsi sul bamboo train che corre veloce tra le campagne e conduce in un villaggio isolato e ospitale, è emozionarsi per lo spettacolo dei pipistrelli della bat cave. E’ immergersi nelle acque cristalline dell’isola dei conigli, raggiunta in barca dalla cittadina di Kep. E’ abbuffarsi di pepe a Kampot, una primizia che i produttori mostrano fieri accogliendo nelle loro piantagioni mentre lo descrivono come il più buono del mondo. E’ perdersi in uno dei mercatini delle città, tra voci, colori e odori che conducono sempre dove non sempre esserci spazio né tempo.
C’è infine quella ferita, che va vista, esplorata, annusata. Succede a Phnom Penh, la capitale che stupisce per la maestosità del palazzo reale e per la luccicante skyline che si può vivere nella crociera al tramonto sul fiume Mekong. Sembra impossibile che un posto così socchiuda la porta a un mondo di orrori, quelli compiuti delle milizie di Pol Pot. Perché non è passato neppure mezzo secolo da quando, tra il 1975 e il 1979, un popolo ha scelto di trucidare il suo popolo, torturandolo nell’S21 TuolSleng, un campo di concentramento considerato la macchina del terrore dei khmer rossi che si nasconde in un anonimo palazzo nel cuore della città. E poi ammassando cadaveri nel campo di sterminioChoeung Ek Memorial Killing Field, l’inferno che scende tra il genere umano a 20 chilometri dalla città. Sono esperienze e visite forti, che diventano quasi sconvolgenti di fronte al “killingtree”, l’albero contro il quale le milizie sbattevano i neonati fino a ucciderli. Perché per i khmer rossi bastava avere gli occhiali per essere considerato un intellettuale, un pericolo, un nemico, un’erbaccia, e “le erbacce vanno estirpate dalle radici per fare sì che non ricrescano”.
Ci può essere il bene oltre il male? Il nostro messaggio di speranza lo troviamo al Landmine Museum, un piccolo edificio che s’incrocia quasi per caso nella zona dei templi. Qui sono esposte centinaia di mine, lascito amaro della guerra e oggi memoria di quel periodo oscuro. C’è soprattutto Aki Ra, un eroe nazionale, un uomo che non sa neppure quanti anni ha, perché da bambino si è ritrovato solo, reso orfano dalla barbarie dei khmer e poi arruolato nell'esercito per combattere il suo stesso popolo, senza più genitori o fratelli che gli potessero dire quando era nato. Aki scappa dalla Cambogia e torna nel suo paese per combattere i khmer al fianco dei vietnamiti e, dopo la liberazione, nel tempo libero bonifica mine. Ne neutralizza da solo 53mila, meritandosi - nel 2010 - anche il premio che la Cnn dedica agli eroi. La conoscenza di questo uomo che è stato violato dal male ma poi è riuscito a scegliere il bene, e che si apre al nostro gruppo attraverso la traduzione della nostra meravigliosa guida Saroun, è un’esperienza incredibile. Aiuta a sperare. Che forse c’è il bene oltre il male.
Grazie ad Aldo, Angela, Angelica, Azzurra, Carla, Domenico, Emanuela, Gaia, Martina, Nicola, Paola, Sandro, Silvia, Simona, Stefania