Avventure nel Mondo

Shiva delle montagne

da "Delhi Varanasi" con Avventure nel Mondo
di Gabriele Valcanover
foto di Nicola Fiore

E quando in mezzo ai falò che bruciano cadaveri ti volti verso il tempio Vishwanath vedrai il fuoco imperituro di Shiva che là brucia da sempre, nella città che il dio della distruzione non abbandona mai. A Varanasi, dove perfino il Gange vorrebbe fermarsi e non scorrere oltre. L’unico luogo al mondo dove il samsara può essere interrotto per raggiungere il moksa. Dove Visnu si inchinò e Brahma perse il quinto viso. Nella città della luce, Kashi, se mai è esistita e esiste davvero perché solo tra i ghat si impara a guardare oltre il manto delle illusioni. Tra i sadhu e i funerali, con le botteghe degli artigiani più su, nei vicoli della città vecchia, gli odori degli incensi o la puzza della merda per strada non possono scalfire l’unione solitaria di ognuno con tutto il creato perché su quelle scalinate il tempo che passa non è il tempo di questa terra. Tutto finisce e tutto inizia su quei roghi, per un India che sembra galleggiare come un’isola lontana, sospesa tra verità e finzione.

Il nostro viaggio tra le stratificazioni cronologiche del paese comincia da Delhi, al contempo nuova e vecchia, oggi capitale di uno stato governato da un partito che è sempre più sbilanciato verso l’induismo. Ma a Delhi rimangono ben visibili le architetture musulmane degli imperatori Moghul che dominarono parte dell’India del nord, tra Agra, Jaipur e tutto il Rajasthan. E così usciamo dall’aeroporto dopo mezzanotte e ci inoltriamo in una metropoli scura e confusa. Siamo in India ma non esiste la terra fantastica fatta di spezie, seta e creature fantasiose raccontate dai viaggiatori del medioevo europeo. Ma perché l’India? Perché devi andare proprio in India? Ancora oggi questa terra ha il potere di dare risposte prima che le domande siano poste. Un’India sporca. Di gente che mendica. Di strani personaggi colorati. Sovraffollata. Puzzolente. Malata. Una società basate sulle caste. Che puzza e l’igiene non esiste. Con quei santoni che non so io. Ma perché proprio l’India, nel mondo?

Le strade sono buie, è tardi. C’è comunque traffico. Superiamo le vie principali senza vedere ancora nulla dei mezzi di trasporto – o gli animali – che incontreremo in seguito. L’albergo si trova in un vicolo illuminato da qualche lampione su cui sono attorcigliate decine di cavi elettrici. La luce mostra la nebbia. Poi c’è un incrocio che si dirama in tre strade. I tuk-tuk sono parcheggiati alla rinfusa a destra e a sinistra. Oltre, un gruppo di uomini si scalda attorno al fuoco bevendo il thè. Andiamo a dormine in una camera fredda e umida, la peggiore di tutto il viaggio.

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Quando i Portoghesi arrivarono in India – del sud, a Goa – rimasero stupiti dal fatto di incontrare dei musulmani. L’India non era affatto quella che si aspettavano di trovare. Per loro, che cercavano fortune economiche, il rammarico fu grande. Nonostante ciò, fondarono uno dei primi imperi coloniali. Per noi Delhi invece è proprio la tomba di Humayun, imperatore Moghul di fede musulmana, posta al centro di un giardino enorme che spicca con le sue geometrie di arenaria rossa. È la moschea di Jama Masjid che visitiamo togliendoci le scarpe per la prima volta. Sono tutti i mercati che la circondano, tra stradine strette piene di gente che entra e esce dai bazar nei contrasti di luci ombre colori, oppure le strade più grandi, dove i bus passano vicino ai cammelli e ai medicanti per strada. Sono i bambini che ti strattonano perché vogliono qualche spicciolo o qualcosa da magiare. E poi è il Raj Ghat, luogo di cremazione di Gandhi e oggi memoriale. Così l’India ci accoglie nella sua capitale: senza un benvenuto e con mille contraddizioni. Ma non fa paura. Anzi, ha perfettamente senso. E mentre ci spostiamo tra i siti di Delhi in gruppo, ognuno a modo suo pensa e si racconta l’India che ha di fronte adesso. Ci entriamo dentro, con una foto, con delle battute, e piano piano diventiamo viaggiatori che vedono da soli tra le linee del tempo. Perché l’India di oggi non cancella l’India di ieri che pure non esiste più. Al di sotto dell’economia e della voglia di progresso alla maniera occidentale rimangono la lingua inglese ricordo della dominazione, così come la guida a sinistra, il mito leggendario del Mahatma e della nonviolenza, i ritmi lenti della gente più povera, l’ombra delle caste illegali e effettive, e briciole di spiritualità sincera musulmana e induista.

Alla sera prendiamo i tuk-tuk per andare a cena. Uno si rompe e altri due lo spingono da dietro in una formazione a triangolo. E proprio in questa prima sera indiana vediamo immersi la vita che scorre e come trascorre il tempo a Delhi. Ci divertiamo così come si divertono i nostri guidatori e arriviamo al ristorante. Prima però il giro per le strade trafficatissime: con i clacson che non smettono un attimo di segnalare sorpassi controsorpassi a destra a sinistra sopra e sotto o chissà che altro. Sta di fatto che il suono continua e continua e anche noi sorpassiamo e siamo sorpassati. Poi la gente attraversa la strada quando vuole e se non ci sono le persone ci pensano gli animali a passare. Capita anche di fermarsi a un semaforo e subito si è circondati da bambini che vogliono vendere qualsiasi cosa a noi che arriviamo da fuori. Per strada fa un freddo che non immagini. Per questa India strana che di sera è gelida e il pomeriggio al sole devi stare in maniche corte. E il tuk-tuk corre via, anzi i tuk-tuk corrono via, i nostri, quegli degli altri, quelli vuoti e quelli con gli indiani, con l’aria che ti arriva in faccia e fa sempre più freddo e hai sempre più fame. Non siamo più davanti a un monumento: è l’India delle strade. Per la prima volta nel viaggio vera e vissuta, senza niente da guardare ma con tutto che va guardato. Perché sono le persone. È la vita. Ognuno con la propria. Storie di ricchezza e di povertà. È ciò che conta: tutto insieme per le strade di Delhi, senza un monumento da ammirare. E infine il ristorante e l’impatto spettacolare con la cucina indiana.

Ci sediamo ognuno al proprio posto su una lunghissima tavolata nera che è stata prenotata appositamente per noi. Il locale è pulito, sa di spezie, da ricchi. Il nero della tavola esalta il colore delle portate. Ancora prima di ordinare siamo circondati dai gialli, dagli arancioni, dai rossi delle salse. Il bianco del riso brilla. E poi ci sono le zuppe, le ciotole che vanno avanti e indietro portate dai camerieri vestiti eleganti. Ogni volta però che la porta si apre da fuori arriva l’odore della strada e dello smog. Arriva il freddo che c’è. Si vedono anche gli autisti dei tuk-tuk che ci aspettano mentre noi mangiamo. Dall’altra parte della porta del locale che divide due Indie. Poi arrivano i menù e ordiniamo quasi a caso perché ancora non conosciamo i nomi dei piatti tipici. Ci arriva di tutto: pollo in salsa masala – spettacolare! – con i tocchi di carne che a ogni morso si sfaldano lasciando esaltare il sapore del curry e delle spezie, porzioni enormi di biryani – un piatto tipico di riso servito in un vaso di terracotta –, le zuppe piccanti. E prima di tutto il mitico nan, il pane indiano in tutte le sue forme: butter nan, cheese nan, garlic nan. Mangiamo tantissimo. Poi i tuk-tuk ci portano al primo negozio di tessuti indiano del viaggio. Al termine della giornata andiamo a dormite nelle nostre stanze fredde e umide – ammesso che le porte si aprano – più che soddisfatti.

Il mattino seguente colazione presto. Dal piano interrato dove mangiamo si può vedere, più in alto rispetto a noi, una donna che chiede la carità. Ha con sé una bambina piccola. Torna in mente il vento. Il ristorante, la strada. Il cibo che si vende sulle strade. La samosa e il chai. Altre cose, altro mondo. Altra simbologia. Altra ricchezza. Meditazioni solitarie. Dalle parole di qualcuno emergono già le nebbie di una città costruita sul fiume Gange che Shiva mai abbandona.

Poi saliamo sul pullman, direzione Jaipur. Prima però tappa al Galta Ji, il tempio delle scimmie. Entriamo così nel Rajasthan. Il Galta Ji è un tempio induista incastrato in una stretta valle scavata da un ruscello tra le montagne sopra la città di Jaipur. Il corso d’acqua è ancora visibile e anzi si fonde con il tempio in una serie di vasche rituali. Il tempio stesso è diviso in più fasce, dalla cima della collina fino alla zona più bassa. All’arrivo di accoglie l’odore delle mucche che pascolano. Entriamo nel tempio che si presenta come una sorta di cittadella fortificata, con una larga strada al centro e gli edifici religiosi a sinistra, a desta, e, più avanti, su per la collina fino in cima. Tutti gli spazi sono pieni di scimmie che si riconcorrono saltando da un cornicione all’altro. I muri dei templi sono gialli, ocra, di un colore consumato che sa di vecchio e di importante. Qui davvero sembra di trovare da un momento all’altro, dietro l’angolo, qualche creatura da bestiario. Ma è tutta fantasia perché la realtà sotto le illusioni è quella del misticismo induista. Che va oltre a tutto, come il tempo delle convinzioni che si dissolvono e solo così possono rinascere più vere: meno occidentali e invece indiane. Un percorso lungo che comincia ai piedi della montagna e che finisce forse solo una volta raggiunta la cima di chissà quale vetta inarrivabile, lontana da tutto e solitaria tra la neve perenne. Come in tutti i viaggi, in tutte le salite, come nei labirinti infiniti e nella nebbia delle illusioni non ci si muove con i piedi ma sono i piedi che si muovono, e la mente che guida. Ma è comunque solo un primo assaggio, e così proseguiamo. Oltre a noi, ci sono altri turisti, indiani, e anche dei fedeli. In cima sentiamo recitare i mantra annusando l’odore degli incensi. Sotto di noi da una parte la valle con le vasche presso le quali altri pellegrini pregano, circondati da scimmie – c’è pure una mucca che sale le scale –, dall’altra la città di Jaipur al tramonto. E con il sole che cala anche noi discendiamo le gradinate che avevamo percorso in senso opposto per salire. Così gli archi, le finestre e le porte, i gradini dei templi compaiono e scompaiono tra i giochi di luce e ombra.

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A Jaipur abbiamo giusto il tempo per entrare in un tempio sikh al momento della cerimonia serale prima di andare all’albergo e dormire.

Il giorno seguente il sole splende alto sopra la città rosa e il Palazzo dei venti si staglia imponente e leggero contro il cielo blu limpido. Primo simbolo dell’India dopo il Taj Mahal, è la porta d’ingresso del Rajasthan, con i suoi cinque piani di arenaria rossa e rosa e le oltre novecento finestrelle che consentivano alle donne della famiglia regale di vedere la strada senza essere viste. Proprio quella strada dei poveri delle caste più basse che tutti sembrano voler evitare. Solo il Palazzo dei venti pende verso il basso ma è tutto un inganno: non voglia di avvicinarsi al mondo degli ultimi ma salvaguardia dei potenti. In caso di terremoto infatti il palazzo crollerebbe così proprio verso la strada e non verso gli altri edifici dei maharaja. I re sono salvi. Mentre siamo sul marciapiede vediamo anche un incantatore di serpenti che si esibisce in favore di fotocamere. Tutto insieme, presente e passato, autentico e solo raccontato, sono lì. E il termine di rosa che gli inglesi inventarono imponendo un lessico sbagliato su un mondo preesitente svanisce sotto i colpi della spiegazione della nostra guida Wassim. L’origine del colore della città va ricercato indietro nel tempo, quando ancora l’insediamento non esisteva. Fu costruito infatti in precedenza il meraviglioso Amber Fort giallo come il sole, proprio in ricordo della stella che illumina la terra. Solo in seguito fu fondata la città, sempre dai maharaja Rajput che già avevano conquistato e fatto erigere nuovi blocchi del forte. Fu così scelto di dare alla città ancora il colore del sole, questa volta però al tramonto e all’alba. Non rosa ma salmone. E se il Palazzo dei venti ci stupisce, così come il Palazzo dell’acqua, che sembra emergere dal fondo del lago, è proprio l’Amber Fort il luogo che non si dimentica. Di arenaria rossa e di marmo. Con la sua muraglia percorsa a zig zag da una stradina lastricata che porta al portone d’ingresso. Oggi vi passano anche gli elefanti. Con la merlatura difensiva e con gli abbellimenti degli archi e delle finestre lavorate. Con la porta di Ganesh dalla testa di elefante servito dal topo suo veicolo. Con il palazzo degli specchi Jai Mandir che rimanda a tempi andati di meraviglia e fastoso splendore di stoffe candelabri profumi luci ricevimenti banchetti potenza guerriera.

A proposito di palazzi visitiamo anche il Palazzo di Jaipur che ancora oggi è la residenza del maharaja. Vediamo poi l’osservatorio astronomico Jantar Mantar con i suoi strumenti in pietra giganteschi per misurare lo spostamento della terra e dei pianeti. Lì si trova anche la più grande meridiana del mondo che è perfettamente conservata e funziona. Ci sono poi strumenti astronomici finalizzati alle pratiche astrologiche – segni zodiacali e ascendenti – ritenute fondamentali per il buon esito dei legami matrimoniali. Matrimoni peraltro combinati nella quasi totalità dei casi in India. Sono pochissime le persone che si sposano per amore e, anche in questi casi, solitamente è il futuro marito che sceglie la donna. L’India è anche questo. A tal proposito, Wassim ci racconta la sua storia personale: proveniente da una famiglia indiana musulmana, Wassim si è innamorato e ha sposato una ragazza induista. Allontanato dalla sua famiglia ha dovuto faticare per ottenere una vita soddisfacente in società. Ora a casa sua si celebrano le feste di tre religioni: islam, induismo e cristianesimo. Sì, perché Wassim parla italiano ed è stato in Italia. Tornato in India, ha deciso di fare la guida per turisti italiani e internazionali. Non solo: assieme a altri cittadini di Jaipur gestisce un negozio di lana pashmina e tessuti pregiati nella città. L’India è anche questo. E al suo negozio Wassim ci porta con orgoglio e così vediamo tutto l’inventario possibile immaginabile ed è il tempo degli acquisti di stoffe del Kashmir e di sete che riflettono tutti i colori. Mentre ci vengono mostrati i tessuti assaggiamo il kahwa – un tipico thè himalayano preparato con cannella, cardamomo e zafferano – e mangiamo lo yoghurt locale, il lassi

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Jaipur è anche la città delle pietre preziose e così andiamo a vedere un laboratorio di artigiani che si occupano appunto di raffinare e intagliare ogni genere di pietra per poi incastonarla nei gioielli. Passiamo poi al mercato dei fiori che si trova proprio di fronte a una rotonda trafficatissima. E attraversare la strada in quel preciso punto dove tutti i generi di veicoli passano alla rinfusa solo per puro gusto di farlo ed è fantastico. Ecco perché l’India, ecco perché. Queste mille storie così diverse dal noto e il noto abbandonare per distruggersi e poi rinascere un’altra volta ma diversi. Durante un viaggio in cui si rievoca la figura di Shiva che unico può sorvegliare questo processo di meditazione individuale da soli e con tutti in un territorio di cui sappiamo ancora ora al termine del viaggio pochissimo. Ma è già tanto da lasciare un segno. Perché non si torna a casa uguali. Non è solo un fatto di divertimento o di svago, né di fotografie e di monumenti pazzeschi. I margini. Ciò che sta fuori dalla cartolina. Guardiamo tutto e anche se lo facciamo da estranei non si può rimanere indifferenti alla povertà o alla sporcizia. Alle persone che quando cala il sole si riscaldano bruciando plastica e legname, con queste fiamme che si accendono poco alla volta, facendo da contraltare alle lampadine dietro le finestre delle case. O i bazar sulle strade, con i loro odori. Le spezie e la puzza. Le pentole come solo quelle pentole possono essere. Pentole o padelle da chai e da samosa. Di olio bollente e di zenzero che ti brucia la gola. E fa bene, fa passare ogni genere di male, come ci dicono in continuazione. Ed è buonissimo sul momento ed è un ricordo indelebile poi. Poi il sole tramonta e noi vediamo tutto questo tra i colori del mercato di Jaipur la sera. Prima della cena ci aspetta anche un massaggio tradizionale indiano. Infine dritti a casa di Wassim che ci ha invitati a cena al termine di una giornata incredibile. Ringraziamo per l’ospitalità enorme e proprio prima di andarcene, per scendere verso il piano terra e la strada, passiamo su una sorta di terrazza che è anche il tetto della casa. Da lì si vedono tutti i tetti delle case del quartiere. È una notte senza stelle ma che brilla passata a scherzare ospiti come dagli amici. E questa luna che cresce o diminuisce da sotto in su e viceversa, di notte, illumina l’India anche quando il sole non si vede, prima dell’addio sui tetti di Jaipur.

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I giorni seguenti li passiamo sulle tracce dei grandi imperatori Mughal, prima a Fatehpur Sikri e poi a Agra. Passiamo così nello stato dell’Uttar Pradesh. Prima, però, l’ultima meraviglia del Rajasthan è il pozzo di Chand Baori, con i suoi tremilacinquecento gradini distribuiti su tredici piani. Vicino ad esso due templi risalenti all’VIII secolo che sembrano abbandonati. Sono potentissimi però nello loro volontà di non mostrarsi attraenti ai turisti. Sembrano quasi più sinceri, più veri. Ci spostiamo poi verso la città della vittoria, Fatehpur Sikri, fondata dall’imperatore Akbar. Circondata da mura e da porte immense, è una tipica cittadella fortificata dell’epoca Moghul e infatti si notano le strutture islamiche di questa dinastia di fede appunto musulmana. Akbar però fece costruire per le sue tre mogli preferite tre diverse residenze dentro il palazzo della città, ognuna delle quali richiama visivamente uno stile architettonico differente: cristiano, induista e musulmano, così come tre furono le religioni professate dalle tre mogli. Si dice che la città fu abbandonata quasi immediatamente per mancanza di acqua. Ci spostiamo poi verso Agra, che fu la capitale dell’impero Moghul tra il XVI e il XVIII secolo e infatti proprio qui è stato innalzato il più celebre monumento di tutta l’India: il Taj Mahal. Si tratta di un enorme mausoleo che decora la tomba di Mumtaz Mahal, moglie prediletta dell’imperatore Shah Jahan. La costruzione è gigantesca, di marmo bianco decorato con migliaia di pietre preziose e semipreziose e, inoltre, sui muri delle facciate esterne sono incisi i versi delle sure del corano con una precisione che lo rende quasi irreale. Perfetto, pulitissimo, curato. Distaccato da tutto ciò che lo circonda, fermo nel tempo per farsi ammirare, come un’isola nel mare dell’India che nel frattempo, attorno, cambia. Meno famoso ma comunque pazzesco è poi il Forte Rosso di Agra, interamente in arenaria, sede del potere e meraviglia di simmetrie. Qui vissero i più grandi: Babur, Humayun, Akbar.

Noi, nel nostro piccolo, festeggiamo il capodanno proprio ad Agra, sul tetto dell’hotel. Il ricordo più bello ancora una volta però non si trova in cima alle scale nei luoghi privilegiati ma molto più in basso, giù sulla strada comune, dove si vive la vita. Nel centro dell’India musulmana brindiamo con una birra bevuta di nascosto lontano dalle vie più battute, protetti da un paravento. Perché è vietato bere alcolici in pubblico. E così un bar piccolo, che sembra un bazar, senza mura e aperto su tutti i lati, ha però sul retro, dopo il terriccio e gli animali che girovagano, una piccola zona chiusa con pavimento in cemento e sedie di plastica. Qui si respira un’aria immediata che non si merita giudizi perché tanto ormai non avrebbero senso dati dal di fuori, quando ormai ci siamo rilassati e partecipiamo per davvero all’India. Rimangono le tappe lungo la strada, dove si mangiano samosa cucinate in cucine all’aperto o nelle dispense, con i fornelli che scaldano l’olio per friggere e l’acqua del thé, le persone che lì lavorano e le persone conosciute, quelle che chiedono di fare un selfie e quelle che vogliono una foto, oppure che si lasciano fotografare tra mille sorrisi, senza mai essere scortesi, con quel tipico gesto della testa inclinata per dire di sì, il freddo appena scesi dal bus e il freddo che tutti patiscono senza riparo e che passa quando ci si rende conto che così è la vita quotidiana di milioni di persone. E così svanisce la pretesa di superiorità del nostro mondo occidentale fatto di niente se non cose inutili. Rimane addosso tutta l’India intera e ancora il viaggio deve proseguire verso sud, fino alla fine e all’inizio di tutto, sulle rive del Gange nella città di Varanasi. Continuiamo quindi verso Gwalior. Ma è il primo giorno del nuovo anno e l’India è tutta in festa: il castello è affollatissimo. Tutto il paese si è riversato nello stesso luogo è c’è da avere paura a superare i tornelli e avvicinarsi al monumento, tra migliaia di sguardi che fissano noi, novità in quel contesto. Abbandoniamo così Gwalior per Orchha, nel Madhya Pradesh. E Orchha è avvolta nelle nebbie e il suo palazzo è incredibile. Diroccato e misterioso, domina sulla foresta circostante in cui gli alberi, di tanto in tanto, sono interrotti da antichi villaggi medievali abbandonati o dalle guglie dei templi induisti che spiccano tra il fogliame. Il complesso del palazzo è unico nel suo genere e così si distingue da tutti gli altri monumenti che abbiamo visitato in precedenza: troviamo ancora alcuni elementi Mughal ma si tratta di aggiunte posteriori al nucleo originale del forte, fatto costruire da Rudra Pratap Singh, primo re di Orchha appartenente alla dinastia Bundela Rajput. Ma il grande capolavoro è il Jahangir Mahal, che deve il suo nome al sovrano che tra le mura fu ospitato solo per una notte, Jahangir, e a lui l’edificio fu donato. Dopo la morte improvvisa di Jahangir il palazzo rimase di sua proprietà, perché un dono non si rivuole indietro, e così la leggenda vuole che solo una notte in esso qualcuno dormì e così sarà per sempre. Di pari bellezza il Raja Mahal, residenza dei re e delle regine di Orchha.

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Proseguiamo il giorno seguente verso Khajuraho, degna introduzione alla fine del mondo solito percepibile, con i suoi templi induisti, che segnano uno spartiacque da cui nel viaggio non si torna più indietro. Già si vede l’acqua che bagna il paese. Non è il Gange però. Già si vedono stradine strette e colorate, con dei negozi. Che non sono ancora il quartiere degli artigiani nella città vecchia. A Khajuraho c’è però un mercato, aperto giorno e notte, dove si vendono stoffe, pietre preziose e statuine degli dei. Si contratta, come sempre. Qualcuno canta seduto per strada e suona pure, nella povertà più estrema di fronte al falò. Anzi, sono decine le persone che si riuniscono dopo il tramonto per un momento di allegria, nella piazza del paese, sotto i ristoranti per chi può permetterseli, oppure più in là, dietro quell’angolo scuro che nessuno avrebbe considerato se non la nostra guida locale, che conosce quelle strade perché ci vive, e infatti ci accompagna a un piccolo slargo illuminato dove si beve masala thè seduti su sedie di plastica bianche e si ride con gli amici. La nostra guida poi ci racconta dei suoi studi: conosce l’italiano e ha visto La vita è bella. Il ricordo fisso della cultura italiana è però per lui Peppino Impastato che lotta morendo contro la mafia. È quest’atmosfera malinconica ma allegra, sicuramente vera e già quasi mistica che ti rimane dentro come il profumo dell’incenso. E Khajuraho è poi celebre per la conservazione in ottimo stato di un sito risalente al X secolo in cui sono visibili ventidue diversi templi dedicati alle principali divinità dell’induismo. In origine i templi erano più di ottanta. Sono costruzioni che svettano come montagne tra la vegetazione della zona e come le montagne si sviluppano in verticale. Le torri sembrano pinnacoli e le guglie dei monti dell’Himalaya, il trono di Shiva, sono riproposte dalle architetture a incastro che salgono sempre più in altro verso il cielo sfidandosi le une con le altre. Ogni tassello che compone i templi rappresenta una scena di vita quotidiana tra le quali risaltano varie scene erotiche, all’origine del pensiero tantrico. Il nostro viaggio a Khajuraho si conclude con la visita alla riserva faunistica di Panna, dove con un po' di fortuna si può vedere la tigre del Bengala che dentro la riserva vive libera e non aspetta i turisti e che non può essere ingabbiata perché non è una cartolina e i successi e gli insuccessi dipendono dalla sua volontà e della natura, che esiste e basta, ricordando agli esseri umani che non sono onnipotenti. Come quando si scala una vetta.

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Poi ci sono un’infinità di svincoli tra il traffico che ingorga e blocca le strade ma nessuna via d’uscita è possibile ormai e il cammino prosegue con la forza di volontà perché un’alternativa non c’è verso la meta della città della luce, dove il mondo sensibile finisce. E le automobili trasportano cadaveri addobbati a festa sul tetto e le vetture superano altre vetture e i clacson rimbombano gli uni contro gli altri e poi improvvisamente tutto si placa, anche se i rumori continuano ad esistere. E il silenzio interiore si fa strada e la luce lascia il posto all’ombra al calar del sole e la nebbia si alza avvolgendo tutta Varanasi al nostro arrivo sulle sponde del fiume Gange. Ed è freddo ed è mistero. Ma non è possibile sottrarsi al fascino di una città millenaria che sfugge al corso del tempo sia verso i tempi antichi che non hanno mai messo di riproporre al futuro le tradizioni spirituali di allontanamento dal mondo, sia nel tempo presente, perché l’abbandono è inevitabile e le regole del gioco del mondo non sono più le stesse. Siamo fuori da tutto. E i templi nella città di Shiva sono a centinaia. E il bue suo veicolo e il lingam e il tempio di Parvati sua sposa, vestito completamente di rosso sangue, come il sangue delle vite sacrificate alla dea, e la salvezza dall’eterna reincarnazione e la fuga dalla tristezza del mondo possono essere, essere per davvero. I mantra, i fedeli inginocchiati, i mistici, i fiori di loto, i colori delle benedizioni in fronte, gli arancioni i rossi i gialli che addobbano i cadaveri pronti alla cremazione sui roghi dei ghat, per i bianchi dei capelli degli anziani e i bianchi della nebbia sopra al Gange sorvolato dai gabbiani che si fiondano radenti all’acqua e per i bianchi dei parenti che per cinque volte girano attorno alla pira funebre. Per l’odore di incenso e per quello degli aromi e delle spezie che continuamente sono gettanti tra le fiamme e che il fumo soffiato dal vento porta e ti avvolgono. Per le gigantesche cataste di legname che non si usa per scaldare le case. Per le fiamme che scintillano sui candelabri che ruotano illuminando la notte in attesa del giorno e per quelli che saranno spenti quando ritorna la notte. Per le cerimonie e i canti rituali. Per i rituali. Per il fuoco del tempio Vishwanath da cui tutto è iniziato e tutto finisce per ricominciare una nuova fase creatrice sulla sponda giusta nella città di Shiva. Perché il mondo inizia è ha temine a Varanasi. E non importa se l’India si sta aprendo al mondo. Se l’India si offre ed è offerta. Se l’economia la sta cambiano e sta cambiando il turismo indiano. Se l’idea che si vuole dare è quella dell’orientalismo e di un misticismo esasperato. Se si vuole cancellare la componente islamica di un paese. Non importa, non a Kashi, perché qui i sadhu fasulli sono affiancati da quelli autentici, perché attorno alle elemosine ruota una spiritualità autentica, perché gli outcast nella loro povertà sono capaci di un sorriso e di non abbandonare la vita, perché qui il nazionalismo l’identità induista estremizzata l’orgoglio esclusivo non hanno mai fatto breccia. Perché nel quartiere degli artigiani si legge il Corano e nelle botteghe scure tra i vicoli lastricati si gioca con gli aquiloni, le pecore hanno i maglioni e i musulmani cuciono i sari. E forse Varanasi esiste per davvero ed è un esperimento millenario di collaborazione che coniuga autenticità e sviluppo. O forse invece è solo un miraggio, un ricordo lontano destinato a scomparire e a uniformarsi a tutto il mondo e allora a tutti noi dell’India resterà solo la meditazione solitaria e il distacco da questo mondo fasullo, lontano sulle cime innevate, come Shiva delle montagne.

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Tra un inizio ed una fine, il fiume respira, vive, cresce, entra infine in una nuova dimensione. Parla di vita, di morte e rinascenza. Sembra che tutto possa nascere dalle acque del Gange, tutto declinarsi, delinearsi e scorrere. Qui gli Indu vengono a purificarsi, alcuni a morire, ma non è la nostra morte, non è il nostro dolore. Una consapevolezza diversa si fa strada. Un’assenza che è presenza. Un passaggio, nuova crescita. Non c’è abbandono né solitudine. Cosa sento? Sulle sponde di questo fiume sacro ogni uomo, al di là del suo credo, percepisce forte il senso della vita. Senza paura, via il dolore, che scivola silente nei riflessi del sole, quello che resta è parte del mistero, è il dono della vita. Sento un’energia dolce che scorre al ritmo del fiume, piano.

Nessuna fretta, nessun urlo, nessun peso, l’eterno non ha gravità. Mi ritrovo su una barca. È sera a Varanasi. I palazzi vibrano di preghiere di pellegrini. I fedeli si raccolgono sulle sponde. Si preparano ad immergersi. Una ragazza mi porge una candela su della carta ornata di fiori freschi. L’accendo, ecco, la poso sull’acqua galleggia, va anche lei, illumina poco. Piccola luce tremante, piccola preghiera, preda della sera, non temere l’abbandono al nero. La osservo allontanarsi e raggiungere nuove offerte di luce. Ci sono altre barche nel buio. Poi la luna sorge, raccoglie le stelle del fiume e le rilancia al cielo. Un sorriso che era rimasto imprigionato non si sa bene dove, trova la via d’uscita. Luce su buio. 

Ho percorso i corridoi di molti volti, giovani e adulti, padri, madri, figli e intoccabili. Ho conosciuto storie che si annunciavano da sole e parole fatte di gesti e pause. Porte aperte su polvere e sete. Suoni e odori, ora invadenti ora delicati. Ho camminate in mezzo a strade che non potevano nascondere neanche una lacrima. La vita è fatica, il sorriso e l’amore erano lì, sul ciglio della porta ma il dolore era sempre dignitoso. Ho inseguito i sorrisi della gente, non è stato difficile. Nessuno in India ti rifiuta la protezione di un sorriso. Sono solo sorrisi. Se solo poteste sentire anche voi questa luce viverla come tiepida e serena carezza.