Più lontano di così non si può andare
Se pensate che viviamo in un piccolo mondo, prendete un aereo per la Nuova Zelanda. Verso la ventiseiesima ora di volo, quando starete per atterrare a Melbourne e prendere la coincidenza che vi porterà ad Auckland in altre 3 ore, avrete cambiato idea. Il mondo non è poi così piccolo! Ma la cosa più interessante che imparerete è che vale assolutamente la pena di fare tutte le 29 ore di viaggio necessarie per raggiungere questo magnifico paese che si trova esattamente agli antipodi rispetto all’Italia. Più lontano di così non si può andare: poi si comincerebbe a tornare indietro. 28 dicembre. Auckland Atterriamo ad Auckland sotto una pioggia torrenziale. Siamo stravolti dalla stanchezza, lo scalo a Melbourne ci ha dato il colpo di grazia con controlli doganali kafkiani. Siamo partiti dall’Italia con la pioggia e arriviamo con il diluvio! Sarà mica che ci hanno fatto uno scherzo e abbiamo girato in tondo per 29 ore per poi riatterrare a Malpensa?? Paolo il capogruppo ha prenotato sia l’ostello che i pulmini per il transfer: saggia decisione! Bravo capo. Raccattiamo i bagagli e partiamo verso il nostro ostello della catena YHA in centro città. Ci fiondiamo alla scoperta della città semideserta, visto che qua siamo nel mezzo delle vacanze estive. Ha smesso di piovere, che fortuna! Andiamo verso il porto, dove ci sono parecchi ristoranti dall’aria costosa, moltissime barche a vela (la barca a vela sta ai neozelandesi come lo scooter Scarabeo sta agli italiani: ce l’hanno praticamente tutti) e soprattutto il primo negozio dedicato al rugby, lo sport di gran lunga più amato e popolare. Gli All Blacks sono un’istituzione, e c’è grande fermento per i campionati mondiali che si terranno nel 2011. Le magliette e gli altri souvenir costano una fortuna, ma molti di noi escono stracarichi di sacchetti con gli acquisti. La città è moderna ma un po’ anonima, senza il fascino di New York o di altre città americane, ma non è male: è ordinata, pulita, per niente caotica e con negozi interessanti. Sorge su una baia con molte insenature, ideali per fornire una protezione alle numerose barche. Gli addobbi natalizi le danno un interessante tocco di grottesco: si gira in maniche corte e ci sono babbi natale ovunque, che noi fotografiamo con dovizia.
29 dicembre. Auckland - Dargaville
Thank God for Starbucks! Di buon mattino ci fermiamo per la nostra dose quotidiana di caffeina. Scarpiniamo fino al campus universitario, su e giù per le ripide pendenze che ricordano, fatte le debite proporzioni, San Francisco. La giornata è radiosa. Dopo aver costeggiato un incantevole quartiere in stile vittoriano visitiamo i giardini adiacenti al campus e poi, attraverso un bellissimo parco sulla collina (che poi è un piccolo vulcano inattivo), raggiungiamo il museo. Grande entusiasmo suscita l’avvistamento di un pappagallo tutto colorato che zampetta nel parco: ci sentiamo proprio in un luogo esotico! In realtà questo è il primo e ultimo pappagallo che vediamo, che magari sarà scappato da qualche gabbia domestica. Il museo è grande e molto curato; purtroppo per mancanza di tempo riusciamo solo a visitare la parte dedicata alla cultura maori, dove si aggirano anche dei ragazzi con costumi tradizionali (vale a dire, un gonnellino e molti tatuaggi). Li hanno scelti bene: sono prestanti e palestrati, al contrario di molti altri maori che incontreremo durante il viaggio, che sono per lo più sovrappeso: il junk food americano ha evidentemente molti proseliti fra gli indigeni! Dopo un rapido giro fra le splendide sale del museo partiamo al galoppo verso la sede dell’autonoleggio dove dobbiamo ritirare le nostre vetture. Rivelazione Numero Uno: i neozelandesi sono LENTISSIMI. Dopo aver avuto a che fare con un impiegato o un cameriere neozelandese il vostro concetto di lentezza assumerà nuovi, inquietanti contorni. Il fatto è che loro non hanno fretta. Sono in pochi (neanche quattro milioni di persone per quaranta milioni di pecore!), quindi le code non sono mai molto lunghe, e comunque il turismo non muove ancora i volumi a cui siamo abituati qua in Italia, anche se la trilogia del Signore degli Anelli ha dato una notevole popolarità alla Nuova Zelanda. Perciò che fretta c’è? D’altronde anche noi siamo in vacanza, e dopo un primo momento di sgomento impariamo a farcene una ragione e a riderci su. I bagagliai delle quattro Toyota Corolla non sono esattamente spaziosi: la mostruosa valigia di Giulia viene cacciata dentro con sforzi sovrumani ma alla fine si riesce a far stare tutto. Un consiglio: portate via poca roba!! In tutti gli ostelli ci sono le lavatrici a gettone e vi eviterete di fare un incontro di lotta greco-romana ogni volta che dovete ficcare il bagaglio in macchina. Salutiamo Auckland e ci mettiamo in marcia verso la nostra prossima meta: Dargaville, circa 180 km verso nord. Attraversiamo una campagna meravigliosa, con verdi colline e pascoli che ricordano l’Inghilterra; ci sono un sacco di mucche che ruminano felici nella beata ignoranza del fatto che una di loro potrà diventare la nostra cena prima della fine del viaggio. I paragoni con l’Italia, la Scozia, l’Irlanda si sprecano: questa regione ha un che di familiare ma al tempo stesso c’è qualcosa di radicalmente diverso. Comunque sia, ci piace da matti! La spiaggia di Bayliss Beach si estende a perdita d’occhio, la schiuma delle onde si vaporizza in una nebbiolina salmastra. Ci siamo solo noi, e qualche altro animo romantico che ha scelto questo scenario per meditare sui massimi sistemi. La luce del tramonto è morbida e dorata, l’orizzonte è lontanissimo, e per noi abituati agli spazi angusti della città è inebriante poter spingere lo sguardo così lontano. È una sensazione che dà le vertigini: siamo dall’altra parte del pianeta, la luce estiva ci avvolge e respiriamo l’aria dell’Oceano Pacifico. Adesso comincio a realizzare che sono in Nuova Zelanda, un posto lontano che più lontano non si può. A Dargaville non c’è praticamente nulla, ma ha il suo perché: è un paesello minuscolo in cui ogni tanto salta anche la corrente; vicino c’è un fiume in cui le anatre sembrano spassarsela alla grande. Ceniamo in un locale vicino all’ostello, una specie di pub dall’aria decadente gestito da una signora maori che ha la forma e le dimensioni di una lavastoviglie. La nostra italianità si guadagna l’onore di una colonna sonora a base di Pausini ed Eros Ramazzotti (va be’, apprezziamo lo sforzo). Sulle pareti del locale sono incorniciate delle foto che ripercorrono l’eccitante storia di Dargaville. Anno 1900: quattro case in una foto in bianco e nero; 1970: quattro case in una foto a colori sbiaditi; 2010: quattro case in una foto a colori nitidi.
30 dicembre. Dargaville - Kaitaia
La mattina dopo ci svegliamo presto, l’aria è frizzante e iniziamo la giornata in modo promettente con un aneddoto di Mario su quando era in Africa e un ippopotamo è entrato nella capanna per brucargli il giaciglio di frasche. Mario è l’anima del viaggio: alto e magrissimo, laconico al limite dell’inquietante, ma quando apre bocca non parla mai a caso. Lungo la strada per Kaitaia visitiamo la Waipoua Forest dove troviamo i kauri, degli alberi alti fino a 70 metri dal cui legno si ricavano anche prodotti di artigianato locale. Ma l’evento più emozionante è l’incontro con un segnale stradale che avverte della presenza dei kiwi, gli uccellini senza ali e con il corpo cicciottello che sono l’emblema della Nuova Zelanda. Essendo animali notturni purtroppo non ne vedremo mai, anche perché sono minacciati dai malvagi opossum che divorano le loro uova e si riproducono con più entusiasmo dei conigli. Gli opossum non sono una specie endemica, ma sono stati introdotti da qualche scellerato nell’ecosistema della Nuova Zelanda. Di per sé sarebbero anche carini, ma li prendiamo subito in antipatia a causa della loro ingordigia, e contribuiamo al controllo demografico acquistando prodotti con la loro lana. In compenso il pur esiguo traffico sulle strade miete la sua quota di vittime pelose, di qualunque forma e dimensione, che rimangono in gran numero maciullate sull’asfalto. Animali schiacciati a parte, la strada è di nuovo spettacolare: costeggiamo colline e pascoli in cui si aggirano mucche felici ed ignare del proprio destino, facciamo un picnic in riva al mare guardando una famigliola maori in vacanza ed i bambini che giocano e ridono spensierati tirandosi in faccia delle enormi alghe marroni dall’aspetto disgustoso. Poi inizia a piovere e ripartiamo in direzione Kaitaia, dove veniamo accolti da un sole fantastico, una temperatura estiva e un’ispirazione immediata: andiamo a fare il bagno! E via si va, per tuffarsi nell’oceano (con il cielo nuovamente nuvoloso…ma che importa!).
31 dicembre Cape Reinga – Kerikeri: ovvero le folli notti nella movida neozelandese
Si parte per Cape Reinga! Ah, ed è l’ultimo dell’anno! Ce ne ricordiamo quando ci fermiamo a mangiare in una tavola calda frequentata da fricchettoni, e una band locale sta preparando gli strumenti per suonare stasera. Sospiro di sollievo pensando che almeno quest’anno mi risparmio il supplizio di andare a qualche cena dove ci sono tutte coppie, con il conto alla rovescia per la mezzanotte e il trenino sulle note di Maracaibo. Evviva! Questo già da solo vale lo sbattimento di 29 ore di volo. Ci accompagna una lieve ma insistente pioggerellina che per fortuna smette proprio quando arriviamo al Capo. Si vede un lungo tratto di costa selvaggia con scogli a picco e insenature in cui l’oceano assume sfumature di colore eccezionali, nonostante il cielo grigio. Un piccolo faro bianco ci attende all’estremità del promontorio, con un cartello che indica le distanze da varie località: Londra, 9735 chilometri; Tokyo, 8475; Polo Sud, 6211. Siamo più vicini all’Antartide che all’Europa! E proseguendo in linea retta verso l’orizzonte si raggiunge…be’…Papua Nuova Guinea. Se c’è un posto più esotico di questo, io proprio non voglio saperlo. Ripercorrendo la penisola verso sud facciamo una sosta alle dune di sabbia, dove è possibile noleggiare degli aggeggi simili a tavole da surf per scivolare giù dalle dune. Sembra divertente, se non fosse che la sabbia è fradicia e gli intrepidi che si lanciano giù dai pendii si trasformano in grosse cotolette impanate. Perciò evitiamo (io però me ne pento un po’: ma quando mi ricapita??). L’ostello di Kerikeri ha l’aria molto cool. Le stanze sono tutte da 8 persone, i nostri vicini di camera sono dei cinesi che cucinano cose misteriose e confabulano altrettanto misteriosamente intorno ai fornelli. Anche noi abbiamo fatto la spesa e mangiamo in ostello, poi andiamo in cerca di qualche locale dove aspettare la mezzanotte. Ne troviamo uno (probabilmente l’unico nella non molto tentacolare Kerikeri) dove suonano musica anni Ottanta e Novanta, per poi degenerare in una sorta di techno allucinata e ritornare, senza soluzione di continuità, al revival. Noto con piacere che anche qui Grease è un must! Alcuni ballano, io mi stufo quasi subito e mi aggrego a Marco, Silvia e Giulia per commentare l’abbigliamento delle ragazze del posto, basato principalmente su una raffinata combinazione di: minigonna leopardata giropassera + top ultra scollato + reggiseno imbottito di kleenex + scarpa tacco 14 con laccetti da dominatrix da cui le squinzie continuano a cadere dopo il terzo gin tonic. Ciro piccolo socializza con due loschi figuri con capelli gellati e maglietta di lycra nera e poi si dilegua lasciando me ed Angela in balia dei simpatici personaggi, dai quali ci allontaniamo appena possibile. La mezzanotte l’aspettiamo nel parcheggio del locale perché abbiamo lo spumante in macchina. Altri restano all’interno e ne escono subito dopo la mezzanotte per comunicarci che i festeggiamenti sono stati decisamente più moderati rispetto a come siamo abituati in Italia: conto alla rovescia, 3..2..1..”eeeeehhh!” applauso. Fine dei festeggiamenti. Comunque il tono trash della serata l’ha resa veramente gradevole, e quindi ce ne torniamo in ostello felici e contenti, soffermandoci nel cortile ad ammirare il meraviglioso cielo stellato che ci prepara ad un inizio dell’anno radioso.
1 gennaio 2011 – Bay of Islands e il tete a tete con le orche assassine
La giornata è splendida. Mentre visitiamo le Rainbow Falls ci viene in mente che in Italia i nostri amici sono alle prese con il cenone! Noi invece abbiamo indossato il costume da bagno per la nuotata con i delfini prevista durante l’escursione alla Bay of Islands. Non male come inizio d’anno. La barca parte da Pahia all’una, il che è ottimo perché ci dà il tempo di girare per i negozi di questa bella cittadina turistica ed elegante (elegante secondo i parametri neozelandesi, quindi “scialla” in modo meno svaccato del solito). I più saggi si comprano la crema protettiva, convinti anche da Fabrizio (con cui ci siamo persi in macchina il primo giorno) che sostiene che qui il buco dell’ozono rende i raggi solari particolarmente feroci. Io, che da sempre mi ribello all’autorità ogni volta che posso, per principio non mi metto nessuna protezione e infatti mi arrostisco il muso. Ben mi sta. La Bay of Islands è meravigliosa: è esattamente quello che indica il suo nome, un’enorme baia con molte insenature, un mare cristallino e molti isolotti coperti di vegetazione, su alcuni dei quali sorgono le favolose ville dei miliardari locali. Il bagno non si fa, per una ragione validissima: i delfini non ci sono, in compenso ci sono moltissime orche (che in inglese si chiamano killer whales, il che la dice lunga)! Evento straordinario, a quanto pare, anche per la gente del luogo. La nostra barca le segue per un bel po’, e loro sembrano gradire tante attenzioni. Facciamo una tappa a terra ed alcuni fanno il bagno (senza orche, ovviamente), l’acqua è ghiacciata. La giornata è un successo su tutta la linea: sole, mare, orche a go go e per concludere un bella birra fresca con la nostra dose quotidiana di fritto, che si manifesta sotto forma di un secchiello di patatine. Alla grandissima! Pahia ci piace così tanto che alcuni decidono di tornarci dopo cena (io invece resto in ostello a curarmi le ustioni solari…), ma se ne tornano di lì a poco con le pive nel sacco: tutti i locali sono chiusi. Rivelazione Numero Due: in Nuova Zelanda la vita notturna è scarsa e finisce presto. Credo sia perché qui sono molto simili agli inglesi, cenano presto (tipo alle 18), escono presto e vanno a dormire presto.
2 gennaio – Coromandel, ovvero: un deja vu di traffico domenicale verso Sottomarina
Si torna verso sud: ripassiamo accanto ad Auckland e raggiungiamo la penisola di Coromandel, meta preferita dai neozelandesi in vacanza. Vi sono molte località di villeggiatura, sorgenti termali e spiagge. Restiamo incolonnati nella coda di villeggianti per un’ora buona, e questo ci porta alla Rivelazione Numero Tre: in Nuova Zelanda le strade sono ben tenute ma i ponti sono quasi tutti ad una corsia, quindi a senso unico alternato. Il perché non li facciano a due corsie resta uno dei grandi misteri irrisolti di Aotearoa. Mario commenta giustamente che sembra di essere sulla statale Romea in una domenica mattina di agosto, ma mentre sulla Romea il traffico si muove almeno un po’, sebbene a rilento, qui non si riuscirebbe neanche a fare un incidente mortale, dato che siamo completamente fermi. Quest’affermazione fa calare il silenzio in macchina per dieci minuti buoni. La cittadina di Whangamata attira molti surfisti, che si portano le tavole sottobraccio lungo la bella spiaggia battuta dal vento. La sabbia è soffice e dorata ed è una piacere camminare a piedi scalzi. Ancora una volta l’acqua è troppo fredda per tentare il bagno e ci limitiamo ad osservare un gruppo di surfisti over 60 anni e over 100 chili che arrancano volenterosamente sulle creste delle onde. Certo per chi ha in mente “Un mercoledì da leoni” questi surfisti sono un tantino al di sotto delle aspettative! Ci piacerebbe poterci soffermare più a lungo per esplorare la penisola di Coromandel: ma purtroppo, essendo alta stagione, non abbiamo trovato un ostello con posti ancora disponibili e quindi ripartiamo per la prossima destinazione: Rotorua. Rotorua è molto carina, la vita notturna langue un po’ ma troviamo un posto molto carino dove mangiare una bella bistecca gentilmente fornita da una delle mucche felici che abbiamo incontrato lungo il percorso, e concludiamo con una magnifica birra.
3 gennaio – Rotorua
La giornata inizia alla grandissima con un enorme biscotto alla cannella e cioccolato a forma di kiwi. Com’è carino! Mi sento quasi in colpa quando gli stacco la testa con un morso, ma questo disagio passa subito. Rotorua è una zona con un’intensa attività vulcanica che si esprime con un’abbondanza di sorgenti termali, laghi sulfurei dai colori bizzarri, geyser e sbuffi di vapore che escono da crepe nel suolo. Andiamo a camminare alla Waimangu Volcanic Valley, in mezzo ad enormi felci arboree e laghi azzurrognoli o color giallo evidenziatore a causa delle elevate concentrazioni di arsenico: il paesaggio ha un che di primordiale e non mi stupirei di assistere a una lotta mortale fra uno pterodattilo ed un T-rex. Pomeriggio di relax alle terme! Certo che con il caldo che fa, stare immersi nell’acqua a 40 gradi ti sega un po’ le gambine…però siamo contenti perché pensiamo ai poveri mortali che in Italia sono sotto la neve! La sera facciamo i turisti e prenotiamo la serata maori: ci viene a prendere all’ostello un pullman già carico di giapponesi e australiani, guidato da una donna cubica, matta come un cavallo, che arringa la truppa strillando in un microfono e guidando in modo a dir poco scellerato con la mano libera. Il villaggio maori è un po’ fasullo, facciamo le foto di rito con i finti guerrieri che tirano fuori mezzo metro di lingua, constatiamo che i loro tatuaggi tribali sono falsi (infatti si squagliano a vista d’occhio sotto i riflettori) e poi assistiamo ai balli tradizionali fra cui l’immancabile haka. A cena c’è un buffet di cose anonime a parte le sensazionali cozze giganti verdi, grandi come bistecche.
4 gennaio – il maestoso geyser! Verso il Tongariro
La mattina successiva ci attende un altro momento trash, l’eruzione programmata di un geyser! Ci sediamo insieme a molti altri turisti in una radura a forma di anfiteatro, dove sono state sistemate molte panche di fronte al geyser, una specie di termitaio calcareo che rigurgita pigramente in attesa che il presentatore abbia finito la sua arringa su questo grande e maestoso spettacolo della natura. Dopo un po’ il climax è raggiunto e uno spruzzo alto una decina di metri di leva dal geyser, diffondendo nell’aria un intenso odore di Dixan: apprendiamo con delusione che questo geyser non è puntuale come il mitico Old Faithful di Yellowstone, ma che è stato addomesticato con abbondanti dosi di detersivo, che provoca l’eruzione. Ovviamente i paragoni con il viagra si sprecano. Partiamo verso la nostra meta successiva: il mitico Tongariro, dove sono state girate alcune scene del Signore degli Anelli. È una giornata bellissima e caldissima, ancora una volta il capriccioso clima neozelandese è stato benevolo con noi. Ci fermiamo al lago Taupo per pranzo, dove Silvia, Giulia ed io facciamo amicizia con il sushi locale: buono, abbondante e a prezzi ottimi! Che bello! Nel pomeriggio, mentre alcuni valorosi partono per l’acquisto delle derrate alimentari, alcuni di noi si concedono una nuotata nelle acque limpide del lago, che, come tutti i laghi che vedremo in Nuova Zelanda, è un posto bellissimo in cui verrebbe voglia di trascorrere qualche giorno in più. Nel pomeriggio compaiono delle nubi minacciose all’orizzonte mentre attraversiamo la landa desolata da cui è ormai visibile il profilo del vulcano Tongariro. Le previsioni per domani annunciano pioggia, e le relazioni dei gruppi precedenti non lasciano molte speranze: tutti hanno trovato brutto tempo, e alcuni sono dovuti tornare indietro a causa delle condizioni meteo proibitive. La camminata di domani è di 20 chilometri, durante i quali si attraverserà una spianata brulla e senza vegetazione. Se piove è proprio un disastro! Il nostro ostello è in mezzo al nulla più assoluto. La cosa buffa è che lì vicino c’è una minuscola stazione ferroviaria abbandonata che sembra uscita da un film western. Chissà che senso ha? Ceniamo in ostello e andiamo a letto presto perché domani è il gran giorno e la sveglia è all’alba: ci aspetta quella che Tripadvisor definisce “la più bella camminata in giornata del mondo”!
5 gennaio – la giornata campale del Tongariro
Alle 7.30 i nostri ardimentosi avventurieri salgono sul pullman che li porta al punto di partenza della camminata. Mario viene debitamente istruito affinché non racconti tragedie di intere comitive spazzate via da bufere improvvise o incenerite da fulmini. Il tempo è inaspettatamente buono, qualche nuvoletta innocua qua e là e una gradevole aria frizzante. Per ora nessun segno delle piogge torrenziali descritte nelle relazioni di viaggio precedenti. Il gruppo scatta la foto di rito alla partenza (prima che l’estetica venga guastata da facce stravolte e ascelle pezzate) e poi si disperde quasi subito a seconda dei livelli di allenamento: Paolo il capogruppo, Marco il “maledetto geologo” e Stefano galoppano a tutta birra fino alla cima, Ciro piccolo con le sue scarpe fashion di Nero Giardini (gli scarponcini glieli hanno rubati a Kerikeri!) e Angela si concedono la pausa sigaretta e il resto della comitiva si industria per sopravvivere ai duecento milioni di gradini che dalla spianata iniziale portano verso la cima. Il paesaggio è lunare, un deserto di rocce ferrose venate con mille sfumature, esaltate dal sole che splende a dispetto delle statistiche. Dal crinale si gode di una vista meravigliosa, crepacci e cime frastagliate con tre laghetti azzurrissimi (e gelidi), sulla riva dei quali alcuni di noi si fermano per rifocillarsi e ispezionare l’interno delle scarpe alla ricerca di forme di vita intelligente. La marcia riprende, io perdo il resto del gruppo ma trovo Roberto e subito dopo i tre coraggiosi che hanno raggiunto la cima e sono scesi da un sentiero alternativo, rotolando in mezzo alla polvere: sembrano tre grosse cotolette impanate. La discesa verso il punto di arrivo è interminabile, siamo proprio stanchi e non vediamo l’ora di riposarci. Incontro di nuovo un simpatico signore neozelandese simil-hobbit a cui avevo chiesto di farmi una foto verso l’inizio della camminata, e attacco bottone con lui: si chiama Richard, fa il maestro elementare e mi racconta parecchie cose interessanti, fra cui il fatto che i maori non se la passano affatto male rispetto agli aborigeni australiani o agli indiani d’America: la struttura tribale dei numerosi coloni scozzesi è simile a quella dei maori, che si sono integrati bene con i nuovi arrivati. Il che risolve anche il mistero dell’origine dell’accento scozzese di molti neozelandesi e di parte della toponomastica locale, in particolare nell’isola del sud. Nel tratto finale della camminata attraversiamo una bellissima foresta percorsa da ruscelli e cascatelle che formano delle pozze di acqua limpida in cui verrebbe voglia di tuffarsi; e finalmente arriviamo, esausti, al punto in cui il pullman verrà a prenderci. Ci spiaggiamo all’ombra come balene morenti mentre dalle scarpe escono fumi venefici, e dopo un po’ arriva anche Ciro grande, sbuffante come una locomotiva e con ancora il berretto di lana in testa, perché per levarselo avrebbe sottratto energie preziose per arrivare a destinazione sano e salvo.
6 gennaio – il giorno più lungo
Partiamo di buon mattino dal Tongariro e attraversiamo una campagna verde e idilliaca, stile regno di Oz. Osserviamo affascinati un trattore che insegue a tutta birra una mandria di mucche spaventate e scattiamo un sacco di foto a questo paesaggio bucolico. Il nostro equipaggio è costituito da Ciro grande, che ronfa sonoramente per quasi tutto il viaggio, un Mario insolitamente loquace e Federica, con cui mi alterno alla guida, che mi racconta del suo periodo in Giappone, e chiacchierando con lei il tempo passa in modo decisamente piacevole. A Palmerston North facciamo una sosta al museo del rugby, che in realtà è uno stanzino con alcuni cimeli buttati in giro, più simile alla cameretta incasinata di un adolescente che a un vero museo; optiamo quindi per una colazione ipercalorica in un caffè che si trova vicino a una quantità incredibile di locali di spogliarello e di bordelli. Hai capito i neozelandesi?? Ripartiamo alla volta di Wellington ma perdiamo di vista una delle macchine, che con sollievo ritroviamo a destinazione. Alcuni di noi visitano il museo (bello ma un po’ scarno per noi che siamo abituati ai musei vaticani ed altre meraviglie! Ma il calamaro gigante immerso nella formaldeide vale da solo una visita), altri si fanno un giro in città, poi raggiungiamo l’ostello e ripartiamo subito alla ricerca della cable car, la funicolare che porta sulla cima della collina che sovrasta la città. Il cielo è tempestoso (infatti dopo un po’ piove), tira un vento fortissimo e il mare all’interno della baia è agitato, con creste bianche di spuma che vengono spezzate dal vento. Chissà com’è fuori in mare aperto, e domani si prende il traghetto….mi viene la nausea al solo pensiero! La funicolare non si trova. Giriamo come ermellini strafatti di crack seguendo le indicazioni contraddittorie dei wellingtoniani (o wellingtonesi? Boh), che di volta in volta ci dicono di andare in cima alla salita o di tornare giù fino in fondo, e noi, con le gambe ancora doloranti per la camminata del giorno prima, stiamo per arrenderci, quando finalmente la funicolare appare all’orizzonte! Evviva! Intanto si è messo a piovere di brutto, per cui facciamo un giro con la funicolare e poi il gruppo ritorna in ostello, mentre tre di noi vanno alla ricerca del porto da cui partirà il traghetto. Missione compiuta: per celebrare ci concediamo un sacrosanto e meritatissimo mojito.
7 gennaio – arrivo all’isola del sud
La sveglia è prestissimo, dobbiamo andare a prendere il traghetto. Per fortuna verso l’alba la bufera si è placata, e il mare è relativamente calmo. Nel dubbio però trascorro tutta la traversata tenendo in tasca il sacchetto per il mal di mare, non si sa mai! L’isola del sud ci accoglie con un bel sole e una temperatura estiva. Il traghetto si è addentrato fra fiordi ed insenature, sembrava di essere in Norvegia. Anzi, in questa zona ci sono ancora più fiordi che in Norvegia. Nella bella cittadina di Picton prendiamo in consegna le nuove macchine (le altre le avevamo lasciate all’autonoleggio a Wellington) e ripartiamo dopo pranzo, costeggiando dei rigogliosi vigneti. Qui si produce parecchio vino, e ci fermiamo ad assaggiarne un po’.
8 gennaio – Abel Tasman National Park
Ancora una volta c’è un sole splendido. Attendiamo in spiaggia la barca che ci porterà all’inizio del percorso nel parco. Lungo il percorso abbiamo depositato Antonella, febbricitante, in un motel. L’andremo a recuperare nel pomeriggio. Il battello costeggia piccole baie sabbiose, lambite da una folta vegetazione, e parecchi escursionisti pagaiano energicamente sui loro kayak: bella vita! Certo la loro idea di “folla di vacanzieri” non corrisponde alle orde di turisti a cui siamo abituati noi! In tutto il viaggio abbiamo incontrato molti australiani, alcuni gruppi di coreani e solo altri tre italiani. Qui il turismo non è ancora un fenomeno di massa, e gli auguro che non lo diventi mai. Dopo l’approdo il battello riparte e noi ci incamminiamo attraverso il bosco, affacciandoci su piccole baie semideserte costellate di irti scogli ricoperti di verde. Il mare è azzurro e molto invitante. Quando ci tuffiamo scopriamo che è ancora una volta freddissimo; ma non è una sensazione sgradevole, anzi è molto tonificante! Facciamo picnic in spiaggia, osservando l’angosciosa odissea di una famiglia di anatre e di un gruppo di gabbiani che cercano di impadronirsi di una grossa bistecca rimasta intrappolata nella risacca. Mi sento molto deus ex machina quando decido di dare una svolta agli eventi e rientro nell’acqua gelida, sfidando i marosi per recuperare la bistecca molliccia e la lancio a riva fra gli applausi di un gruppetto di supporter. I pennuti si precipitano gioiosamente sul bottino, ma nella frenetica colluttazione per accaparrarsi il boccone più grosso finiscono per far ricadere la bistecca nel turbine della risacca. Rifletto che questa scena è molto rappresentativa dell’esistenza umana, e alla luce di questo elevato pensiero filosofico decido che ne ho abbastanza di giocare alla divinità nell’acqua gelida e abbandono le ottuse bestie al loro destino. Ritornati dall’escursione, ci rimettiamo in macchina per la prossima meta: Greymouth. Ci sono un sacco di chilometri da fare. Al crepuscolo andiamo a vedere le foche in un tratto di costa meraviglioso, con faraglioni maestosi e una spiaggia immensa. Neanche le nuvole di zanzare fameliche riescono a distoglierci da questo spettacolo eccezionale. Mentre ci incamminiamo verso le macchine, parecchi polletti selvatici spennacchiati sfrecciano spaventati in tutte le direzioni. La strada è lunghissima e piena di curve, i guidatori sono stanchi. Ciro grande dorme sul sedile posteriore, la testa che dondola fra una curva e l’altra. Paolo resta sveglio a tenermi compagnia con il cd di Bruce Springsteen e per qualche minuto siamo galvanizzati dall’avvistamento di un opossum una volta tanto vivo e non spiaccicato a bordo strada.
9 gennaio – il Franz Josef Glacier
Oggi si va in elicottero sul ghiacciaio! Arriviamo nella cittadina ai piedi del ghiacciaio, ci sistemiamo al sole ai tavolini di un bar e finalmente è il momento del nostro volo! Saliamo sull’elicottero in quattro alla volta e per mezz’ora sorvoliamo l’enorme massa di ghiaccio, frastagliata da crepacci e corrugamenti, per poi atterrare sulla neve in cima alla montagna. Il pilota ci mostra il monte Cook, proprio di fronte a noi. È un’emozione grandissima! Infatti scendiamo di corsa dall’elicottero, gasati come ragazzini, e non vediamo l’ora di raccontare la nostra avventura tutta d’un fiato agli amici che devono ancora provarla. Mille foto, baci e abbracci e uno sbracciarsi in saluti e occhi lucidi come se si partisse per un lungo viaggio, e poi altri abbracci e risatine isteriche al ritorno dal volo! Nel pomeriggio camminiamo fino alla base del ghiacciaio, lungo un torrente formato dallo scioglimento del ghiaccio. Appena cala il sole fa davvero freddo, io sono in maglietta e infatti il giorno dopo sono senza voce, con mal di gola e un raffreddore micidiale che mi terrà compagnia fino alla fine del viaggio. Dopo cena ci concediamo una birra e una passeggiata sotto la fantastica volta stellata.
10 gennaio – Gillespie Beach – Lake Matheson
Il bagno a Gillespie Beach viene annullato a causa del cielo nuvoloso; decidiamo comunque di fare una passeggiata su questa bellissima e lunghissima spiaggia di ciottoli, su cui troviamo molti pezzi di tronchi levigati dal mare, che sembrano misteriose sculture astratte. Dalla spiaggia è visibile il monte Cook, che raggiungeremo fra qualche giorno. Proseguiamo poi per il lago Matheson, in cui l’ormai familiare sagoma del monte Cook si riflette. La passeggiata è panoramica e rilassante, dopo alcuni giorni davvero adrenalinici un paesaggio così idilliaco ci sta a pennello! La strada verso Wanaka è uno spettacolo: il traffico è inesistente, ci possiamo godere la vista di verdi pascoli popolati da eserciti di pecore, che si alternano a foreste rigogliose e valli attraversate da fiumi cristallini. Anche qui non mi stupirei di avvistare Dorothy del Mago di Oz! Aveva ragione Richard (l’amico simil-hobbit incontrato sul Tongariro): Wanaka è un posto bellissimo. L’omonimo lago è circondato da verdi montagne, e le sue sponde accolgono famigliole che fanno il bagno nell’acqua limpida o cercano tregua dal sole cocente sotto l’ombra di grandi salici piangenti. Ci immergiamo nell’acqua, ovviamente ghiacciata, e io sono seriamente convinta che morirò per un arresto cardiaco! Invece sopravvivo, anzi dopo questa sferzata di energia mi sento proprio bene. Proseguiamo attraverso le brulle Remarkable Mountains (proprio così si chiamano: le Montagne Notevoli!), e appena scolliniamo ci appare la città di Queenstown, la capitale degli sport estremi! Queenstown è molto più trendy e turistica delle altre città, ma ci piace; con la cabinovia si raggiunge la sommità di un monte da cui si gode di una vista splendida di questa cittadina, che si trova sulle sponde di un bellissimo lago dalle acque blu ed è circondata da montagne su cui d’inverno si va a sciare. Il centro, tutto pedonale, è piacevolmente vivace, con negozi, locali e ristoranti. Stranamente, nel lago mancano i windsurf e le barche a vela, non sono riuscita a scoprire perché. Eppure, dato il vento teso e costante, sarebbe il posto ideale per questi sport.
11 gennaio – Rafting a Queenstown
Siamo in sei, e siamo pronti per la grande avventura: il rafting! Nell’augurarci buon divertimento, Mario ci racconta di un gruppo di escursionisti che facendo rafting hanno imboccato il ramo sbagliato del fiume, finendo maciullati dalle turbine di una centrale idroelettrica. Grazie Mario! Ci portano al “campo base”, dove depositiamo tutte le nostre cianfrusaglie (comprese le macchine fotografiche, ahimè: niente foto ricordo) e indossiamo delle scomodissime salopette e giacche in neoprene, che in pochi minuti creano un microclima torrido e appiccicoso sulla nostra pelle. Sembriamo una colonia di foche in gita scolastica. Veniamo stipati su un pulmino che comincia una faticosa e cigolante salita su per una sterrata simile a una mulattiera, pericolosamente sull’orlo del precipizio. Noi ragazze invece ascoltiamo estasiate il cianciare erratico di una delle guide, un ragazzo americano bello-bellobello in modo assurdo (cito Derek Zoolander), che ha un sorriso per cui potresti vendere tua madre ai beduini. Sul pulmino c’è anche una comitiva di svedesi, e anche le biondissime scandinave cinguettano garrule ad ogni sua battuta. Arrivati in riva al fiume, salutiamo a malincuore l’americano bello in modo assurdo e veniamo presi in consegna da una guida femmina con i capelli viola che assomiglia a una Cindy Lauper obesa e ci spiega i fondamentali del rafting. La discesa del fiume non è così estrema come speravamo, ma d’altronde gli organizzatori non si possono certo permettere il lusso di far schiantare sulle rocce i loro clienti per amore dell’adrenalina, quindi il rischio è controllato. La cosa fichissima è che per rinfrescarci possiamo tuffarci nelle rapide e galleggiare aggrappati alla corda del gommone per poi essere issati a bordo dai compagni. Favoloso! Socializziamo con la nostra compagna di gommone, una ragazza del Bronx sui vent’anni che ci racconta che sta facendo l’anno sabbatico fra Europa, Australia e Nuova Zelanda. Wow! Ma perché non abbiamo anche noi in Italia l’anno sabbatico? Cosa stiamo aspettando??
12 gennaio – Queenstown – Te Anau
Verso ora di pranzo partiamo alla volta di Te Anau, percorrendo una strada ancora una volta panoramicissima. Ed ecco che si verifica un episodio very New Zealand: siamo su una stradina che attraversa la campagna, quando ci imbattiamo in un enorme gregge di pecore che attraversa la strada senza nessunissima fretta. Ce ne sono davvero tante, al punto che la macchina davanti a noi ha spento il motore e il conducente è sceso per osservare il gregge che si muove placido verso nuove eccitanti avventure ovine. Scendiamo anche noi per fare qualche foto, e all’improvviso il cane pastore decide di dare una botta di vita alla sua giornata e comincia ad abbaiare furiosamente, terrorizzando le pecore che partono al galoppo verso di noi belando a gran voce. In un attimo veniamo circondati da un lanuginoso fiume in piena, e risaliamo in macchina in tutta fretta per non essere travolti dalla carica ovina. Non avrei mai pensato che le pecore potessero fare paura! A Te Anau fa davvero freddo. C’è il sole ma il vento è gelido. Nel pomeriggio prendiamo il battello per andare a vedere le grotte in cui vivono i glow worms, ovvero dei vermilli fosforescenti che si trovano solo qui. Ci viene detto in tutte le salse di non scattare foto, ma uno di noi fa ugualmente una foto con il flash, fra l’indignazione dei presenti. Ecco, i soliti italiani! Chi è stato? Io lo so, ma non ve lo dico!! Nel filmato che ci mostrano dopo il giro delle caverne scopriamo che la vita dei vermi non è noiosa come pensavamo: usano tecniche di caccia da pericolosi predatori, difendono il territorio e si accoppiano spesso e volentieri (certo, senza gambe e senza braccia bisogna limitare le proprie aspettative).
13 gennaio – crociera al Milford Sound
I resoconti di gruppi precedenti di Avventure non lasciano molte speranze: nella quasi totalità dei casi le escursioni in barca al Milford Sound sono state funestate dal maltempo. Invece ancora una volta siamo fortunati: non si vede una sola nuvola. Lasciamo l’ostello di buon mattino e percorriamo una strada bellissima e tortuosa, con mille tornanti che avvolgono le loro spire intorno a monti aguzzi da cui sgorgano numerose cascate. Solo questa strada vale il viaggio! Ma questo l’ho pensato a proposito di molti altri paesaggi visti durante queste tre settimane. I fiordi del Milford Sound sono profondi e lunghi, con rocce a strapiombo sul mare blu ottanio. Ci dicono che in nessun’altra zona al mondo ci sono tanti fiordi quanti ce ne sono qui, ed ecco perché questa regione di chiama Fiordland. Alte cascate sfiorano le foche che stanno sdraiate pigramente sulle rocce a godersi il sole. Anche qui sono state girate alcune scene del Signore degli Anelli. Torniamo a Wanaka, dove la perseveranza italica si scontra con l’ottusa burocrazia neozelandese, e dopo un’ora di estenuante negoziazione e svariate telefonate riusciamo a recuperare i soldi del mancato rafting di Stefano, che non era riuscito a partecipare a causa del mal di schiena.
14 gennaio – Monte Cook
Il gruppo si divide: Silvia, Giulia, Angela e Ciro piccolo hanno scelto di fare un giorno di relax al mare, gli altri andranno al Monte Cook. Depositiamo i bagagli in ostello (che, ancora una volta, si trova in mezzo al nulla ma con una magnifica vista della montagna) e partiamo per l’escursione che costeggia il torrente formato dall’acqua di scioglimento dei ghiacci. Attraversiamo alcuni ponti sospesi e ci saltelliamo sopra: non si è mai troppo vecchi per divertirsi a zompettare su un ponte. D’altronde, chi gioca non invecchia mai! Raggiungiamo un piccolo lago dalle acque fangose in cui galleggiano dei blocchi di ghiaccio. Marco, Paolo ed io cerchiamo per mezz’ora buona di trovare un punto in cui sia possibile guadare uno dei torrenti impetuosi che dai fianchi del monte confluiscono nel lago: ma un salto sarebbe troppo rischioso e ci arrendiamo. Intanto un signore giapponese in pantaloni beige e camicia azzurra stirata di fresco (sembra appena uscito dall’ufficio) si sfila i mocassini e in punta di piedi guada il torrente con invidiabile leggiadria. Noi osserviamo allibiti e pensiamo, però, che roba ‘sti giapponesi!! Prima di tornare in ostello ci fermiamo per una sacrosanta birra in un hotel di extralusso lì vicino, l’unico altro edificio (oltre al nostro ostello) nel raggio di un sacco di chilometri. Ci torniamo per una seconda birra dopo cena, godendoci il cielo stellato e la costellazione di Orione più luminosa che mai.
15 gennaio – il paesino stile francese che non mi ricordo come si chiama (ps. Si chiama Akaroa)
Oggi sono in macchina con tutti maschi, che bello! Andiamo a vedere il cosiddetto “paesino stile francese che non mi ricordo come si chiama”, che è per l’appunto questo: un paesino in stile francese di cui non riesco proprio a ricordarmi il nome. Ci perdiamo varie volte e infine arriviamo in questa cittadina dall’aria vagamente provenzale in cui abitavano dei coloni francesi. È il classico posto dove gli anziani benestanti scelgono di venire a trascorrere i loro “anni d’argento”. Approdiamo in un ristorantino con i tavoli in un grazioso giardino, dove fulminiamo in un baleno le nostre birre, mentre Marco e Paolo sono tormentati dall’allergia ai pollini. Ritroviamo anche i quattro che erano andati al mare, che ci raccontano le loro avventure. È l’ultima sera, domani si parte. Arriviamo a Christchurch, in cui il terremoto di qualche mese prima ha lasciato come ricordo molti palazzi danneggiati e puntellati con travi di sostegno in acciaio. Questa è una zona ad alto rischio sismico, e infatti un paio di mesi dopo la nostra partenza ci sarà un altro terremoto che devasta la città, provocando il crollo di molti edifici e lasciandosi dietro una cinquantina di vittime. Christchurch è animata da una vivace vita notturna, con un quartiere pieno di locali dove suonano musica dal vivo e altri dove si può ballare. Beviamo un mojito a un prezzo esorbitante e pochissimo alcolico (quanto costerà prendersi una sbornia qui??), poi ci dividiamo: alcuni vanno in giro per i locali fino a tardi, altri vanno a mangiare un muffin dall’aspetto letale, altri ancora tornano in ostello lungo una strada in cui sono stravaccati a terra alcuni giovanissimi (e giovanissime) così ubriachi da non riuscire a reggersi in piedi. Che scena squallida! Alcuni di loro saranno ancora lì la mattina successiva.
16 gennaio – si parte
Mattinata libera per gli ultimi acquisti. Christchurch è veramente carina. Andiamo all’aeroporto, salutando i 32 gradi della soleggiata Christchurch e preparandoci al lungo viaggio: scalo a Sydney. La tentazione di scendere a Sydney e non risalire più sull’aereo è forte. Questo è per me il segno che un viaggio ha sortito l’effetto desiderato: darmi la carica e la voglia di organizzarne subito un altro. E la Nuova Zelanda di sicuro è stata un viaggio indimenticabile!