Non (?) venite nelle Raja Ampat
Le arrampicate I punti panoramici vanno conquistati. Questo concetto è lampante sin dalla prima escursione, allorché ci issiamo attraverso due barchini comunicanti su costone di roccia estremamente scosceso, alla volta di un lookout. Dov’è il sentiero? Il sentiero è parete stessa, scopriamo dopo qualche istante. Ma nessuno sconcerto: ci sentiamo tutti – chi più e chi meno realisticamente – delle capre abituate agli spunzoni alpini, e pertanto iniziamo la salita senza batter ciglio. La roccia è piuttosto appuntita e molti di noi, fra cui la sottoscritta, lo scopriranno a proprie spese. Dopo appena pochi minuti di wilderness, non so ricostruire il come, mi grattugio la gamba sinistra e proseguo nell’ascesa, noncurante dello sbrego, che anzi in un impeto di rusticità tampono con delle foglie raccolte a caso dalla natura papuasica (non erano velenose, evidentemente, dato che sono qui a raccontarlo). Porto ancora i segni e lo rivendico con orgoglio. Ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena. E la risposta sarà sempre affermativa, qualunque sia il punto panoramico da raggiungere nel viaggio: panettoni di roccia disseminati in un mare di smeraldo, che poi digrada dolcemente al blu, lagune a forma di stella, lagune a forma di cuore, che a noi, sia pure col fiato mozzato dalla salita, riempiono l’anima di gioia incommensurabile. Il valore aggiunto? La solitudine. Quasi sempre, infatti, questi posti sono solo “nostri”: non dobbiamo condividerli con nessun altro turista, ma solo con noi stessi.
Il sole dell’Equatore
Le arrampicate a mezzodì fanno emergere una verità forse banale ma comunque mai esperienziata fino in fondo: il sole picchia. Sono sufficienti poi due giorni di trasferimento in barchino perché il gruppo ne comprenda la portata. Per evitare dunque di essere ammessi nel reparto grandi ustionati, ognuno con la propria creatività tamponiamo le marezzature color aragosta che cominciano ad affiorare sui nostri corpi. Di seguito gli espedienti più in voga.
- Il saccheggio delle sparute piantine di aloe e l’aspersione del gel dell’aloe stessa sulle parti ustionate del corpo. Le riserve di aloe nella Papua Ovest si sono rivelate insufficienti per tamponare l’emergenza.
- L’abbandono delle creme solari bio per l’adozione di quelle chimiche. La riconversione si sarebbe rivelata vincente, forse, se intrapresa sin da subito. Su un arto che ormai vive di luce propria, bio o non bio, cambia poco.
- Lo scrub eco sostenibile, onde asportare con la sabbia del mare, che madre natura fornisce in abbondanza, gli eccessi di pelle riarsa che spiccavano via da più zone del nostro corpo. Una cosa ripugnante, insomma. Anche questo metodo si è rivelato insufficiente: ho notizia di diverse persone del gruppo le quali, malgrado la dedizione mostrata nell’applicare tale metodo, tuttora starebbero perdendo la pelle a brandelli.
- L’abbandono della tenuta da spiaggia tradizionale e il conseguente sfoggio di mises meno convenzionali. Abbiamo quindi un vincitore e una vincitrice. La palma di Miss Tipina da Spiaggia va alla nostra sirenetta Romina, sempre impeccabile con la sua muta integrale nera, che col biondo dei capelli, si sa, fa la sua porca figura. La muta veniva inserita al primo spuntare del sole ed estratta intorno all’ora del tramonto. Vincitore per la sezione maschile, invece, è indubbiamente Massimo, il quale ha brillato per l’originalità del costume indossato per buona parte del viaggio. Esso comprende: pantalone lungo scuro fino alla caviglia, adattissimo per hiking alpino; felpa bianca a maniche lunghe; cappellino con visiera; occhiali da sole; cappuccio della felpa (facoltativo quest’ultimo).
Ma il sole dell’Equatore i regali più belli li fa quando tramonta. Come è noto, la Terra non è piatta: complice dunque la curvatura dell’orizzonte, ogni volta che il sole si inabissa nel mare, questo spettacolo che tutti i giorni si ripete e che pure ogni giorno è diverso, lascia senza parole. Lo stupore è acuito dalla presenza eventuale di nubi, le quali, anziché annebbiare il cielo, lo incendiano di colori e meraviglia. E quando la palla infuocata scende giù, sotto il livello del mare, ecco che il cielo lo saluta con il suo canto del cigno, illuminandosi ancora di più per l’ultima volta.
Il mare è casa
Le case sono letteralmente sul mare: delle palafitte in legno con il tetto di paglia, in mezzo alle onde, e si raggiungono tramite un pontile. Una bacinella con dell’acqua invita a sciacquarsi i piedi dalla sabbia, prima di percorrere il camminamento sospeso in mezzo alla risacca. Tutto è a piedi nudi. A piedi nudi si entra nella stanza, molto semplice, fatta di un paio di materassi sormontati dalle zanzariere. La notte infatti ci sono un po’ di “ospiti”, alcuni, a dire il vero, ben più grandi di qualche zanzara. Per questo, dopo alcune visite notturne che hanno generato urla belluine e qualche scompenso cardiaco, abbiamo deciso di appendere le nostre provviste alle travi del soffitto, come dei veri uomini di Neanderthal. Poco male, gli “ospiti”, pur digiunando, sono rimasti belli pasciuti. Il mare è onnipresente: lo vediamo ammiccare fra le travi del camminamento, entra dalle finestre di legno delle palafitte, si affaccia con tutta la magnificenza di una barriera sempre intatta, nelle “verande” delle camere, dove noi aspettiamo il tramonto. Contiamo le stelle marine, che sono di uno sfolgorante blu elettrico, mentre stendiamo i panni – già, perché il bucato si fa anche nelle Raja Ampat ed è rustico quanto le docce, che si limitano a delle secchiate d’acqua, più o meno dolce, a fine giornata. Qualche irriducibile preferirà lavarsi in mare, naturalmente col sapone biodegradabile, dato che niente deve inquinare questo mare tanto prezioso. Nessuno accusa l’essenzialità degli alloggi, anche perché il mare compensa tutto. E se non lo vediamo, il mare si fa sentire, con il suo rumore inconfondibile e taumaturgico, e la notte ci culla così, finché non cadiamo addormentati al suono della ninna nanna più dolce di tutte.
Droni, go-pro e affini
In principio c’era la macchina fotografica cinese, detta anche action camera. Una versione per povery della go-pro. Ha duemila accessori, come la go-pro, e promette mirabolanti rese subacquee, come la go-pro. Come la si indossa nelle spedizioni subacquee? Questione spinosissima. Perché l’oggetto impaccia non poco. In seguito a un molto sentito brain storming del gruppo, è stato brevettato un metodo, a dire il vero poco elegante, ma funzionale: legare la macchinetta con il filo da pesca a un polso. La macchinetta non scappava dalle mani né precipitava nelle profondità marine. Il problema, tuttavia, subentrava qualora il proprietario della suddetta macchinetta avesse voluto anche utilizzarla. L’estrazione dell’oggetto dal polso, infatti, poteva avvenire solo seguito di complicate manovre, lunghissime, cui si aggiungeva il tempo necessario per accendere la macchinina, quello per scegliere la funzione subacquea più adatta (un’infinità, tutte incomprensibili), infine l’inquadratura e lo scatto. Ma a quel punto la creatura vivente da immortalare si era già inabissata. Le foto e i video, dunque, sono per la maggior parte di una rara bruttezza. Indelebile, data l’infima posizione che occupa nell’estetica fotografica, è lo scatto di una partecipante, che ne inquadra il piede, che calza un sandalo, che è immerso in un mare di meduse. Peccato che le meduse siano in secondo piano e pure parecchio sfocate. Quindi si passò alla go-pro. Un gioiello assoluto della tecnologia. Ma chi acquista una go-pro sappia che diventerà uno schiavo. Schiavo in primo luogo della memoria, che deve essere liberata ogni tre per due. Schiavo poi delle riprese, per cui niente più varrà la pena di essere vissuto, se non attraverso la lente della macchinetta. Schiavo da ultimo del bastoncino da selfie, il quale ineluttabilmente si trasformerà in un’appendice della mano del portatore di go-pro. E il portatore di go-pro, durante un’immersione, sarà disposto a consumare un’intera bombola di ossigeno pur di non rinunciare al braccio estendibile, nella foga degli scatti compulsivi, mentre una manta albina di quattro metri e mezzo volteggia sopra la sua testa. Ma questo spettacolo il portatore di go-pro non potrà goderlo fino in fondo, perché l’ossigeno è ormai finito e tocca risalire, con grande scorno della sua collega di immersioni. Venne da ultimo il drone. Altro incommensurabile gioiello dell’ingegneria aeronautica. Riprese memorabili, eccetera eccetera. A quanto pare dovrebbe servire anche a individuare le mante dall’alto. Per fare ciò sostiamo su una palafitta nel bel mezzo del nulla – sempre che nulla possa essere chiamata una laguna dalle acque di cristallo, una secca sabbiosa dove le mante dovrebbero essere di casa, tanto che sulle carte questo luogo è chiamato “Manta point”. Coi piedi cosparsi di guano, poiché oltre alle mante anche i gabbiani sono di casa nella palafitta, attendiamo che l’oggetto decolli e ci localizzi le mante. Roba che National Geographic scansate. Ecco il ronzio caratteristico del drone. Avevo detto che delle Raja Ampat il ricordo più stupefacente è forse il silenzio assoluto la vertigine che prende l’individuo dinnanzi alla contemplazione di una Natura immensa e incontaminata, in una sorta di struggimento romantico… Lo avevo detto, ma in verità avevo omesso il ronzio dell’insetto metallico. Qualcuno infatti, con lapidario cinismo è vero, nel corso del viaggio ha lamentato più volte l’assenza di una fionda per mettere a tacere l’aeroplanino. Delle mante, peraltro, quella volta manco l’ombra. Le riprese memorabili sono persuasa che esistano, ma sono ancora gelosamente custodite nell’apparecchino, che giace inutilizzato nella sua valigia-trolley apposita.
I fondali
Nessun apparecchio fotografico, per quanto sofisticato possa essere, è in grado di riprodurre la meraviglia che si dischiude a chiunque abbia indossato una maschera e si sia immerso nell’acqua delle Raja Ampat. Giardini di coralli di una miriade di colori – viola, verdi, gialli, neri, rosa, azzurri –, centinaia di animali, squali, tartarughe, cavallucci marini, pesci pagliaccio, pesci napoleone, nudibranchi fosforescenti, aragoste, razze, delfini, le mante gentili che volteggiano come aeroplani, qualcuno ha visto perfino un’orca. Tutto vivo, tutto brillante e coloratissimo. Un altro pianeta. O, forse, questo era il pianeta dovunque, prima che l’uomo vi incedesse con l’arroganza di un padrone e facesse suo quello che, invece, avrebbe dovuto reputare come un lascito preziosissimo. Una volta ho sentito un anziano utente di Avventure elencare i momenti di assoluta felicità che aveva provato durante la sua lunga “carriera” di viaggiatore – si avviava verso gli ottanta. Ebbene, in cima alla lista c’era il primo tuffo con maschera nell’acqua delle Maldive, che allora, forse più di quarant’anni fa, brulicava di una natura rigogliosa e sfacciatamente viva. Ebbene, anche noi alle Raja Ampat dobbiamo aver provato un qualcosa del genere, una gioia incondizionata da incastonare tra i ricordi più belli di un’intera esistenza.
La “caccia” alle mante
La prima manta non si scorda mai, ma nemmeno la seconda. I primi ad avvistarla in questo viaggio, come dicevo, sono stati i nostri due subacquei. O meglio, la nostra subacquea e l’uomo col bastoncino da selfie. Non mi dilungherò ulteriormente sullo spettacolo che deve essere stato questo aeroplano di quattro metri e mezzo, anche perché sarebbe penoso ricordare ancora una volta la brevità dell’esperienza suddetta, troncata dalla carenza di ossigeno nelle bombole. Ma per fortuna le mante alle Raja Ampat sono piuttosto frequenti e, anche senza il supporto da controspionaggio del drone, ne abbiamo viste un’altra mezza dozzina almeno. Il primo avvistamento “di gruppo” è avvenuto a largo di Misool, l’isola più remota del nostro itinerario, in uno zoccolo corallino sommerso. Due dei nostri erano appunto i subacquei di cui sopra, che tuttavia questa volta erano sprovvisti di bastoncino da selfie ma provvisti di sufficiente ossigeno. Il resto del gruppo pinneggiava sopra le loro teste, quando ecco che qualcuno urla “manta!” e non una, ma ben due creature meravigliose iniziano a volteggiare nella loro danza elegantissima. Le seguiamo e proviamo ad accompagnarle nei loro disegni sottomarini, ma non è sempre così facile, perché gli animali sono giustamente interdetti dal nostro entusiasmo un po’ troppo invadente. Nel corso del viaggio impariamo meglio l’etichetta per nuotare con le mante. E quando si lasceranno seguire, e potremo planare insieme a loro, anche se per pochi secondi, ci avranno regalato dei momenti di felicità assoluta difficilmente eguagliabili.
Che si mangia?
Aragoste e Nutella. Non insieme, naturalmente. Però, quando ripenso a come ci siamo nutriti durante il viaggio, questi sono i primi ricordi. Le aragoste – da vive – le vedevamo sgambettare fra gli scogli con una certa frequenza durante le sessioni di snorkeling. Devono essere comuni lì, come d’altronde a Livorno lo sono i favolli. Da impiattate, quindici aragoste insieme regalano una grande felicità. La felicità è in parte offuscata allorché realizziamo che vanno aperte con le nude mani. E allora rotolano corone e scettri, ritornano in auge clave e picconi e ognuno riscopre la parte primigenia di sé, estraendo col pollice opponibile o addirittura coi denti quella ricchissima polpa. Uno spettacolo esteticamente discutibile, ma fonte di grande soddisfazione per tutti. Certo, non che si pasteggiasse ad aragoste tutti i giorni. Ricordo un profluvio riso, come è doveroso che sia in Oriente, molte verdure piccanti, pesci enormi alla griglia, gli adorabili noodles e lei… la Nutella. Dirò un’ovvietà, ma non trovandosi uno stabilimento Ferrero alle Raja Ampat, la crema di nocciole è stata una felicissima importazione nostrana, quel chilo in più in valigia santo e benedetto. La Nutella infatti non solo è il cocktail di carboidrati e grassi essenziale per la colazione del campione, ma è quell’elisir magico che assolve contemporaneamente i compiti di un antidepressivo e quelli di un tranquillante maggiore. Uno psicotropo naturale, insomma. E fu dolce affogare i cucchiai dentro l’ultimo barattolone superstite, allorché realizzammo che il tempo sulle isole era purtroppo terminato e le notizie dall’Europa erano tutt’altro che confortanti.
Il covid
Eravamo felici “lì e allora”: la sfida adesso è esserlo anche “qui e ora”. Il covid era tra noi durante il viaggio. Lo abbiamo incontrato in una Fiumicino deserta il giorno della partenza, e poi abbiamo provato ad ignorarlo nelle lunghe giornate di mare, quando ci immergevamo in una Natura che ci dimostrava che poteva tranquillamente fare a meno di noi, quando i cellulari non prendevano per due-tre giorni di fila, quando l’Italia, l’Europa, l’Occidente ma anche l’Oriente sembravano delle realtà remotissime e non eravamo altro che noi, quindici Robinson Crusoe su delle isole disabitate. Ma il covid si riaffacciava ogniqualvolta ricompariva la linea del telefono e dal resto del mondo ci giungevano notizie incredibili, nel senso di difficili da accettare. In quattro abbiamo provato a prolungare la nostra permanenza sulle isole, perché ci pareva più sicuro aspettare lì che passasse la “nuttata” anziché rientrare passando da numerosi aeroporti in una realtà claustrofobica, fatta di isolamento e angoscia. La ruota della pandemia ha vanificato questo progetto e adesso anche noi quattro esuli, dopo numerose peripezie, siamo tra le mura domestiche a ricostruire le nostre esistenze. La realtà, tuttavia, risulta meno opprimente di come ce la figuravamo e con resilienza e spirito di adattamento cerchiamo di fare tesoro del vissuto, incanalandolo nel momento presente. Le giornate scorrono e si riesce ad apprezzare uno stile di vita più raccolto, fatto di piccole cose e molta introspezione. La vita fuori riprenderà, torneremo a viaggiare e a stupirci del nostro pianeta, che anzi, senza i nostri abusi, adesso sta germogliando per una sorprendente rinascita.
Noi 4
Che si fa? - Io resto. - Anche io. - Anche io. - Va bene, allora dico che restiamo un altro po’. Quattro scappati di casa, fra cui la sottoscritta, decidiamo di prolungare la nostra permanenza alle Raja Ampat, in parte stregati dall’assoluta bellezza di questo mare, in parte atterriti dalla catastrofe che si sarebbe rovesciata sulle nostre esistenze una volta rientrati nella cosiddetta civiltà. Era venerdì 13 marzo 2020 e ci sembrava un’alzata d’ingegno folgorante, sebbene pericolosamente in bilico tra il genio e l’incoscienza. Quattro giovani in Papua nel 2020, come dieci giovani a Firenze nel 1348, isolati dal resto del mondo e quindi al sicuro. I familiari dall’Italia sembrano supportare questa nostra scelta. Ci congediamo dal resto del gruppo a Sorong, e ci regaliamo 24 ore di restyling nell’ultimo avamposto di civiltà prima di reimmergerci nella vita selvaggia. Qualcuno fa il bucato, qualcun altro compulsa le mail del lavoro, c’è chi videochiama a casa, pensando di fare cosa gradita (spoiler: le videochiamate si riveleranno nelle lunghe settimane di lockdown un abusato mezzo di comunicazione). Io nell’ordine perdo una carta di credito, acquisto delle lenti a contatto indonesiane – le mie usa e getta erano terminate e nuotare senza lenti con quattro decimi di miopia non era un’opzione vincente – e soprattutto cerco di rimediare un’estetista. Missione impossibile. Surreali e per questo memorabili le numerose conversazioni in “anglo-indonesiano” da me intrattenute con gli steward dell’albergo e con le varie consulenti di bellezza per chiarire questo mistero insoluto. Bagaimana Anda melemahkan diri sendiri? Altrimenti tradotto con: How do you depilate yourself? Fumata nera. Ho dedotto dunque che in Papuasia non conoscono la piaga del pelo superfluo, oppure questo pelo superfluo lo incendiano come qui certe massaie di una volta ripulivano i polli. Dunque con un baule di provviste, i capelli fluenti, i vestiti puliti e la gioia nel cuore, decidiamo di ritornare a Kri, l’isola con i tramonti più belli, per poi spostarci su un’altra piccola isola i cui fondali promettevano grandi emozioni. Purtroppo, la gioia si raffredda molto presto: qualcosa è cambiato, e una mail dell’ambasciata, appena 48 ore dopo il nostro ritiro, ci sollecita a rientrare il prima possibile in Europa perché la situazione sta sfuggendo di mano anche in Indonesia. È triste l’ultima sera a Kri, e né le cucchiaiate di Nutella né il manto stellato sembrano regalare un po’ di conforto. Qualche lacrima scende mentre salutiamo le isole all’alba di quello che sarà il primo di tre lunghissimi e rocamboleschi giorni di viaggio per rientrare in Italia. Una cosa è certa, però. Noi quattro sappiamo che non si tratta di un addio, ma solo di un arrivederci.