Nel paese delle cicogne
Forse perchè è il Paese delle cicogne, forse perchè il clima è secco e c’è tanta luce, oppure semplicemente perchè Mercurio porta i sussurri degli Dei agli uomini... In viaggio... Una diagonale perfetta, la rotta da Roma interseca Croazia, Ungheria, Polonia e Bielorussia. Il cielo su Mosca è azzurro, chiazzato da nuvole. Prendo il caffè da un grasso ambulante tecnologico per 5 euro; osservo la tipa delle pulizie - attempata, grembiule blu in pieno stile sovietico - mentre raccoglie con scopa e paletta plastiche e dintorni in questa porzione di aeroporto. Fuori, oltre le vetrate, tanti muletti gialli caricano e scaricano i bagagli del mondo. Il resto è un tacchino ripieno di fegatini che si alza in volo e ci offre con le sue virate vertiginosi spaccati di città stellare, milioni di luci, e poi improvvisa, la notte. Taskent sembra ancora tanto lontana. Suggestioni... Ingredienti per un plov ideale: riso, carne, cipolla, carota gialla, uva passa, cumino, aglio, olio di lino. N.B. Il grasso della carne deve ungere la pentola che non dovrà essere mai lavata in modo che sulle pareti si depositi uno strato immondo di grasso, destinato a tramandarsi nei secoli dei secoli, come vuole la tradizione e in culo all’HACCP di quei cazzo di Occidentali. Dopo aver vagabondato tutto il giorno con la guida nelle meraviglie di Bukhara, stasera è venuto a prenderci un ragazzino qui in hotel. Imbruniva mentre ci ha condotti dentro vicoli fino all’ingresso di una casa. Siamo entrati in un cortile tappezzato di oggetti e di vita, e da lì, tolte le scarpe, in una saletta con il lungo tavolo imbandito per noi. Abbiamo mangiato significative porzioni di plov. All’uscita barcollavo, e nel ringraziare, una giovane donna - la figlia della coppia che ci ha ospitato - è scoppiata in lacrime. Uno dei fratelli ci ha spiegato in un inglese gentile che sua sorella sta aspettando da una settimana il ritorno del marito. Da una settimana, ogni notte, un grande fuoco brucia sul minareto, ma nessuna carovana è arrivata dal deserto. La giovane continua a disperarsi, aspetta un bambino. Siamo confusi; io, con tutto quel plov addosso, non capisco se questa è una finzione - come potrebbe non essere altrimenti - ad uso e consumo dei turisti oppure... Sulla via per l’hotel veniamo catturati da un bagliore lassù in alto mentre Sergio prova a raccontarci la teoria della relatività ristretta di Einstein, così, per distrarci: non una parola dal gruppo. - Per me il plov era allucinogeno - parola di Agnes. Una notte difficile, misteriose presenze: due giovani sposi si baciano, lei in abito bianco, lui in un azzurro criminale; il vecchio sopra l’asino è Nasreddin, il saggio, dentro una statua di bronzo; un antico gelso riposa da secoli vicino allo specchio d’acqua; la carovana è arrivata in pieno giorno: gli studenti della madrassa, le ragazze del laboratorio di tappeti, i fedeli nella moschea, gli ebrei nelle loro botteghe, tutti si sono riversati in strada; danzano come invasati due dervisci che aprono la lunga teoria di cammelli e uomini. La giovane sposa abbraccerà il suo uomo. Timur lo zoppo... Al mattino riprendiamo il viaggio, destinazione Samarcanda. Dal pullman sfilano campi di cotone, industrie in lontananza, donne e uomini con le zappe, padre e figlio guardano pecore nere e mucche smagrite, cocomeri e meloni lungo la strada, un posto di polizia, i cani e la ferrovia sono la periferia di Shahrisabz, la patria di Tamerlano. Qui il sole picchia, le signorine avanzano con l’ombrello, un market rosso poco lontano: sembra di stare in Cina. Un gruppo di anziani rende omaggio alle tombe dei familiari del condottiero, uno di essi lascia un’offerta; la cripta di Tamerlano è molto umida, lui non abita qui, è a Samarcanda; nella moschea i fedeli pregano all’aperto, noi li osserviamo a rispettosa distanza; per terra prospera il basilico viola mentre platani secolari sfidano il cielo.
Si riparte. La cintura del Pamir all’orizzonte, terreno brullo, famiglie al lavoro nei campi, ragazzini al bagno dentro canali putridi, cataste di escremento animale per il fuoco. Si racconta che Tamerlano dai capelli rossi fece inviare della carne in tutte le contrade del suo regno, stabilendo che avrebbe scelto la sua capitale laddove questa si fosse conservata meglio. Settecento metri di altitudine, mezzo milione di abitanti, Samarkanda si apre davanti a noi, ma, con nostra infinita delusione, anche qui le scope di saggina sono senza il manico: tutti si chinano per raccogliere la Dea Polvere. All’esterno del Mausoleo di Tamerlano, i soldati lasciavano una pietra: sarebbe servita a contare i vivi e i morti. All’interno il sarcofago di Timur lo zoppo è di noce verde scuro mentre la giada nera ospita il suo maestro e la pietra onice due dei suoi figli. Cambiano le architetture, le cupole presentano delle scalanature, negli affreschi troviamo le palme. Samarkanda multi etnica: gli schiavi indiani di un tempo ancora oggi popolano un quartiere zingaro mentre un cimitero ebraico e cristiano nestoriano su di un’altura raccontano questa mescolanza di genti e di fedi. Il pane e le stelle: fuori dall’Osservatorio di Ulug Beg ci dividiamo un pane alto e saporito; dicono che sia il più buono del paese; dicono che gli astronomi avevano pazienza infinita per calcolare il tempo, un raggio di luce da un foro nella volta di pietra. All’esterno branchi di nuvole oscurano a tratti il sole. In questa moschea, turchese come il colore del cielo, come il colore di Dio, veniva a pregare Timur lo zoppo prima di partire con il suo esercito verso l’ignoto; e quando tornava vittorioso dall’ignoto, in questa moschea rendeva grazie all’Eterno. La cortina di ferro Le creature più innocenti sono i due pavoni legati sul marciapiede non lontano dall’Hotel Zarina qui a Samarkanda. Impossibile entrare nella piazza Registan dove è in corso il Festival “La musica dell’Oriente”. Dobbiamo aspettare che finisca, intorno alle 22, ma non è dello stesso avviso Barbara, la nostra capogruppo. Comincia il gioco degli equivoci in pieno stile sovietico. Di fronte alle sue richieste, i poliziotti ci guardano sornioni e prendono tempo. Ci ritroviamo in mezzo alla calca, tutti premono per entrare, sembra di assistere alla caduta del Comunismo, l’onda gigantesca che si propaga da Mosca verso le sue periferie. All’improvviso un agente ci fa segno di seguirlo. Ci troviamo all’esterno di una seconda recinzione - la musica ci arriva come un’eco - e veniamo scortati lungo un lato nei pressi di un boschetto, luogo ideale per ruberie e ammazzatine. Invece accade la cosa più naturale visto che siamo italiani e portiamo la grana in Uzbekistan: ci chiedono i soldi per entrare, cinque dollari a testa! Il gruppo viene pervaso da un moto di sdegno, mugugna, scuote la testa e se ne torna indietro. Nel locale dove ci ritroviamo per commentare i recenti accadimenti, l’acqua nebulizzata che fuoriesce dai tubi crea un effetto misterioso intorno alla nostra serata. Siamo entrati in questa meraviglia di musica, colori e architettura che è la piazza Registan - la cortina di ferro si è dissolta - e ci avviciniamo verso il palco dove si continua a suonare. Una donna, bruna e con un copricapo colorato, si accompagna con il tamburo mentre canta tutto l’orgoglio del popolo tagiko; alla sua voce, gli uomini rispondono come in un dialogo. Flauto e oud ( una specie di liuto) colorano questo intreccio di canti. Un fascio di luci emana dalla sommità della madrassa centrale: la piazza di Samarkanda è una preghiera di bellezza. La donna lascia il tamburo e si mette a danzare fino ad uno stupendo e conclusivo fermo scena. Adesso chiamano sul palco il gruppo dell’Uzbekistan. Sale un “ostinato” proveniente da uno strumento a corde, un giovane uzbeko canta usando i quarti di tono; il brano cresce con l’intervento di tamburo, viola e flauto. É una tensione meravigliosa, tensione che tocca il suo apice per poi cominciare una lenta discesa. Vaghiamo per la piazza - la musica è finita - ancora frastornati per simile magia. In viaggio… L’indomani carichiamo le valige mentre nella sala ristorante, in bella vista, radio dell’epoca comunista, samovar, piatti per 33 giri, dischi, un solitario pianoforte, legni incisi e tutto l’accumulo del tempo, salutano la nostra partenza. Prima di lasciare la città di Tamerlano, ci concediamo un ultimo regalo: il mercato. Circolare, a due piani, blocchi di cemento lo sovrastano fino all’apertura in alto a forma di tronco di cono. I gironi della sopravvivenza quotidiana: ammassi di carne esposta a vista ( come fa a conservarsi? ), frutta fresca, pesce, pasta, frutta secca, e tutto quel vocìo e la vita che vi si svolge continua, implacabile, una ruota eterna. Rientriamo sul pullman, comodo, fresco, si parte ed è già periferia con il primo campo di girasoli. Il lungo viaggio di ritorno fino a Taskent sarà una giostra dei miracoli. Vita nei campi: una fila di mattoni impastati con fango e paglia, stesi al sole ad asciugare. Ci ricordano quelli che disegnano il volto della città di Khiva, anche se lì gli ingredienti della tradizione - sangue di toro, bianco dell’uovo, latte di cammella - raccontano di una sapienza che sconfina nell’esoterismo edilizio. Scorrono dei nidi di cicogna sopra i pali della luce; i più fortunati ne vedono una, tutta intenta al volo. L’Uzbekistan è un paese con tanti bambini ed è quindi pieno di giovani. Molti di loro vanno a lavorare in Russia e in Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Giappone. Qualcuno cede alle lusinghe infuocate del terrorismo. Il nostro viaggio in pullman scorre sonnacchioso tra un panorama e una storiella del saggio Nasreddin. Poi verrà la musica e la casualità di una play list. Casuale il regalo che si diffonde, e allora tutto si fa possibile......la stazione della metro a Taskent, un omaggio all’astronomo Ulug Beg, nipote di Tamerlano, tutte maioliche con riquadri le cui immagini rimandano all’avventura spaziale sovietica; la giovanissima guida della capitale, vittima di un pessimo italiano e di un nonno caduto con il femore rotto; i legni di Khiva: acacia, noce, gelso, pioppo, albicocco, dentro una moschea in disuso; le minuscole stanze di quello che fu un harem dove mogli e concubine esercitavano l’attesa, la loro dimensione del vivere; Khiva: l’ultima fermata delle carovane prima di affrontare il deserto; il tramonto sulla torre panoramica e i raggi ultimi del sole che bagnano i tetti della cittadina; il deserto, immenso - la musica sale di intensità - un carro militare, un wurdon di metallo, abbandonato chissà quando, chissà da chi; uno specchio d’acqua improvviso; un camion, una ruspa e un pugno di uomini; pausa pranzo nel nulla con spiedini dal sapore d’altri tempi; l’Hotel di Bukhara, balaustre di legno in stile cinese; tracce di Zoroastrismo nelle architetture come intonaco che torna alla luce e convive con i simboli dell’islam; Giobbe passò a Bukhara nella notte dei tempi e vide che gli abitanti soffrivano per la mancanza d’acqua e allora battè con il bastone e venne su l’acqua: miracoli; Lenin restituì l’antico Corano agli Uzbeki: politica; il terremoto dell’8 aprile 1966 mise in ginocchio il Paese ma consolidò una fratellanza socialista; il cambio dei soldi è come un tuffo nella lira, una questione di Som; gli zampilli della fontana a Taskent vanno in alto verso il cielo turchese, verso le cicogne, verso Dio, e poi riscendono e disegnano un cuore. Il disco rosso del sole scompare all’orizzonte, l’Amu Darja sotto di noi, un pescatore getta l’amo; il nostro viaggio sono i volti delle guide e degli autisti, scolpiti nella memoria del tempo. Contadini in bicicletta, arriva la sera sul nostro viaggio. Di nuovo Taskent, la musica dei RadioHead sale di volume, “Arpeggi” che si rincorrono e disegnano il non mai possibile, poesia del presente che dilata il tempo, lo oltrepassa e lo distorce, per tracciare alla fine una “strada bianca” - l’augurio uzbeko - per tutti noi, occasionali compagni di viaggio di Avventure nel mondo in Uzbekistan, in quello scorcio di fine estate.
Coda
Un tizio fece a Nasreddin questa domanda: “Che cosa succede alla vecchia luna, ogni volta che appare una luna nuova? “. Nasreddin rispose: “Quando la luna crescente si alza, il Dio taglia in pezzettini la vecchia luna per farne delle stelle! “. Ragazzi, stasera si spinge forte! Linus