Nomadi, pescatori, sedentari
E’ un viaggio itinerante, che fa conoscere mondi diversi: quello dei nomadi del Mangystau, dei pescatori del Qaraqalpakstan e dei sedentari delle oasi uzbeche.
La prima è un’area semisconosciuta, uno scenario desertico con bianche scarpate e montagne isolate che emergono dalla steppa. Il Qaraqalpakstan è una regione marginale. Dominata a nord da quello che era, sino a poco tempo fa, il Lago di Aral, ma che ha conosciuto in tempi antichi una fiorente civiltà, essendo tappa obbligata lungo la Via della Seta. Infine le oasi dell’Uzbekistan, Samarcanda, Buchara, Kiva, nomi che solleticano il nostro immaginario ed evocano grandi splendori.
In Mangystau ci si muove in jeep, guidate dal team di Sergey, grande conoscitore dell’area, si usa la tenda cambiando campo ogni sera, si cammina adeguatamente in modo da “inserirsi” nell’ambiente. Tutta la regione è in realtà un fondo della Paratetide, il grande mare che, separatosi dal Mediterraneo, si rimpicciolì sempre più dividendosi in Mar Nero, lago di Aral e mar Caspio. Quest’ultimo, a seguito dell’evaporazione, si ritirò ulteriormente, scendendo a -28 m, e lasciando scoperto gran parte del Mangystau, dove i paesaggi sono diversi: steppa bassa semiarida, tratti rocciosi tipo hamada, distese di gesso e calcare, tamerici appena c’è un po’ d’acqua.
Sono ambienti stranianti: il grande lago salato di Tuzbair, il Tuzbair Sor, prodotto dal ritiro del mare, ha fatto emergere rilievi a scalini, rilievi erosi che scendono in forme strane, quasi zampe di animali preistorici, canne d’organo, basiliche.... il biancore è incredibile, assoluto. Facciamo una lunga passeggiata meravigliandoci a ogni passo. Al campo un brindisi e al mattino successivo, dopo il caffè delle 6, via a camminare in questro deserto, che richiama il salar di Uyuni, aspettando il sorgere del sole.
Bozzhira, l’Arizona del Kazakhstan, è un mondo a sè: si contempla dapprima dall’alto, pianoro immenso nel quale svettano guglie e piccole catene montuose; si cammina sul plateau, ammirando le due “Punte di Lancia”, poi si scende e si risale sulla montagna di talco, per godere dell’ambiente da ogni angolazione, foto a nastro per “fissare” con uno scatto questi momenti magici.
Il cosiddetto Tiramisu, striscie colorate di rocce sedimentarie che vanno dal bianco al rosa, dal beige al verde al marrone, sembra un vero dolce. E’ impossibile non percorrerle e ripercorrerle con gioia, deliziati da questo spettacolo, condividendo le emozioni con i compagni di viaggio, sedendosi sotto la “spina dorsale del drago”!
Non possiamo dimenticare però altre emergenze significative, dove abbiamo lungamente passeggiato: Torish, la Valle delle Sfere Giganti, grandi palle risalenti al Giurassico medio (200-180 milioni di anni fa), costituite da carbonato o cemento silicato, che talora rinserrano conchiglie a testimonianza del vecchio mare; Sherkala, la montagna della tigre, e le Ayrakti-Shomanay mountains, la Valle dei Castelli, con i loro pinnacoli e guglie, dove – arrivando al tramonto – sembra di giungere a Petra.
Il fascino del Mangystau è anche altro: l’assoluto silenzio, la vastità del paesaggio, l’orizzonte senza fine, il materializzarsi improvviso di cavalli e cammelli. E’ in questo ambiente spoglio, nudo, che – sparse sul territorio – sorgono numerose moschee sotterranee e necropoli, strutture di pietra, simboli di permanenza e richiamo agli antenati, costruite dai popoli nomadi, che lasciarono più tracce della loro presenza nella morte piuttosto che nella vita. Nei vecchi cimiteri ci sono tombe a sarcofago, con incisioni che rivelano qualcosa della vita del defunto o della defunta: spade, lance, fucili per gli uomini; forbici, pettini, gioielli per le donne. Alcune sepolture sono indicate da belle colonne che terminano con un turbante o un elmo: tutte sono dovute alla roccia facile da lavorare e si sono mantenute grazie al clima secco. Davanti alle tombe ci sono talvolta pietre focaie dove i fedeli bruciano il grasso di pecora.
Non mancano le moschee sotterranee, create dai sufi che volevano ritirarsi in solitudine per pregare. Parzialmente dimenticate nel periodo sovietico, hanno ripreso vita dagli anni ’90 e sono meta di frequenti pellegrinaggi. Una delle moschee più emblematiche è Shakpak Ata nel Kapsamay Canyon, quasi creata dalla natura e semplicemente adattata dai “tagliatori di Pietra” per essere luogo di culto. Non c’è nè simmetria nè precisione, la roccia ai lati del canyon è ad alveare per l’erosione del vento. In essa sono intagliate alcune nicchie rettangolari, luoghi di sepoltura, di fronte pietre focaie per i sacrifici. Si entra nella moschea attraverso un portale ad arco, istoriato da incisioni di cavalli, di mani, da iscrizioni in arabo, salendo alcuni gradini: la planimetria ha la forma a croce: lo spazio quadrato centrale sale verso il soffitto a cupola con un foro nel centro per l’aria e la luce. A ciascun angolo c’è una colonna con graziosi archi piatti che congiungono le colonne stesse. La stanza verso sud ha un Mirhab scavato, con ulteriori nicchie intorno. La camera a est della centrale è più lunga delle altre, con ulteriori nicchie alle pareti, probabilmente per i libri. Questa moschea, che risale al X-XIII sec., è una delle più antiche dell’architettura islamica e presenta legami con templi di altre religioni: zoroastriani, buddhisti, induisti e primi cristiani. Qui gli archeologi hanno trovato tracce dell’età della pietra e delbronzo e per lungo tempo il luogo fu usato dagli adoratori del fuoco. Numerose tombe zoroastriane si trovano infine anche nella grande necropoli che affaccia sulla moschea stessa.
La moschea di Shakpak Ata è raramente in uso, quindi bellissima ma con poca anima. Una di quelle molto frequentate è invece Shopan Ata, il patrono dei pastori, un derviscio sufi seguace del grande poeta mistico Khodia Ahmed Yassaui, nonchè ispiratore di Beket Ata. Un vialetto conduce ad un rilassante cortile alberato, circondato da un insieme di edifici bianchi composto da un luogo di preghiera, un luogo per le abluzionie una guest house: è un complesso moderno costruito col supporto della compagnia petrolifera di stato, la KMG. Attendiamo Juan che è andato a purificarsi e poi percorriamo il sentiero, che porta all’ingresso vero e proprio costituito da un portale ad arco fiancheggiato da due arkars; continuiamo in mezzo ai pellegrini, non quelli che ci immaginiamo correntemente, India o Nepal, ma khazaki vestiti all’europea, signore con il fazzoletto stile nostre contadine anni ’50. Scendiamo verso le stanze più sacre: la roccia semicircolare presenta tre porte a sx della moschea, una è vuota, una ha tre tombe, un’altra ha una specie di altare; attendiamo che Juan parlamenti con l’imam per poter entrare, intanto foto e sorrisi con i presenti. Non potremo entrare, imam categorico. Aspettiamo ancora un po’, poi ci avviamo lungo la salita – sempre necropoli a dx e a sx – sino al recinto circolare di pietre, con il bastone e il drappo bianco e soprattutto la pietra per il sacrificio con il grasso di pecora. Stiamo lì per un po’, poi con Grazia, Paola e Ramona, ci inoltriamo nella necropoli: tombe antiche, sconosciute, accanto a mausolei di persone importanti, e a sepolture più moderne, spesso con la fotografia del defunto.
Rientrati ad Aktau, partiamo alla grande in pulmino per Beyneu, dove prenderemo il treno per la seconda parte del viaggio. L’autista mangia in continuazione semi di zucca, fuori Aktau comincia a correre, abbiamo pure un diverbio, perchè la velocità di 100-140 mi sembra eccessiva, a mezzanotte siamo alla stazione di Beyneu: e qui comincia il teatro.
Lui va dalla polizia, noi scendiamo per sgranchirci le gambe, ma dopo poco risaliamo perchè qui non va bene. Retromarcia e inversione – sempre con carrello – devo dire bravissimo – poi si procede, chiede ad alcuni un’informazione e continua diritto. Ci infiliamo in un sentiero di terra battuta , effettivamente a dx – superata una salitina in terra – c’è un treno; davanti a noi da un pulmino vengono scaricate grandi borse che sono portate al treno attraverso i reticolati!!! Cmq non è qui: altra retro e finalmente ecco – sopra la scarpatina – tre vagoni con scritto Beyneu-Nukus. L’autista scende, passa sotto un reticolato, io dietro con i biglietti; lui li dà ad un controllore che nel frattempo si è materializzato: è il ns treno, ma il vagone è quello vicino, il 19! Vengono scaricate tutte le valige, mentre io presidio il vagone, sale Beppe, poi Gianmarco e poi io, che comincio a chiamare le persone in base agli scomparti e ai letti. Grazia è sollevata di peso. Alla fine entriamo tutti bagagliati e prendiamo posto. Autista pazzo, ma alla fine bravissimo.
Ci sistemiamo, Grazia tira fuori la sua scorta di cibo: noci e nocciole, mandorle... ci tiriamo su: è l’1 AM del 24/09. Arrivano i poliziotti kazaki, che ci timbrano il passaporto per l’uscita, poi gli Uzbechi, entriamo nel Qarakalpakstan e scendiamo dal treno alle 15.
Questa regione strategicamente importante e aspramente contesa, come testimoniato dalle oltre 50 fortezze, presenti, era abitata dai CArakalpaki, popolo nomade dedito alla pesca, documentato da viaggiatori stranieri nel XVI sec. Transitava qui uno dei rami della Via della Seta e numerose sono le rovine di antiche cittàimportanti durante l’impero di Corasmia e poi del kanato di Khiva, città morte è vero, ma che talora conservano un’importante funzione religiosa e dove continuano ad essere create tombe e moschee. E’ una Regione Autonoma della Repubblica dell’Uzbekistan, autonomia concessa nel periodo sovietico e gli abitanti cercano di mantenerla a tutti i costi: il 4 luglio 2022 si è registrata una vasta sollevazione popolare, perchè la gente era contraria al progetto di riforma costituzionale del governo centrale uzbeko, che avrebbe comportato la limitazione dell'autonomia stessa.
La regione visse un periodo di prosperità negli anni sessanta e settanta, soprattutto grazie alla pesca praticata nel lago di Aral, ma il lago si restrinse progressivamente dagli anni ’60 del secolo scorso, quando i suoi due immissari, il Syr Darya e l’Amur Darya, furono deviati per irrigare i campi di cotone, il famoso “oro bianco. L’aumento della salinità dell’acqua ha provocato la diminuzione dei pesci, i raccolti si sono rarefatti per il sale depositato sui terrenidai venti del deserto, la gente è emigrata per la perdita del lavoro. Oggi la parte meridionale del lago in territorio uzbeco è quasi scomparsa e poco è stato fatto per bloccare questo fenomeno.
Moynaq è la città sull’ex lago di Aral: partiamo da Kungrad alle 15:30, la strada è pessima, corriamo in mezzo alla steppa con le piante di saxauls belli, alti e fioriti; ogni tanto un insediamento con qualche casa, avvicinandosi a Moynaq i tetti delle case sono tutti azzurri. L’autista non parla una parola di inglese, a gesti è durissima farsi capire, cmq arriviamo al Museo del Lago di Aral. Si vede un piccolo documentario in inglese, ma sono soprattutto interessanti le foto e gli oggetti di quando quest’area era un luogo importante per la pesca e le fabbriche di lavorazione del pescato. Ci siamo quindi diretti al cimitero delle imbarcazioni, che sta in quello che era il lago: camminando nel surreale silenzio del deserto, circondati da queste vecchie imbarcazioni da pesca ormai arruginite, ma testimoni di un passato florido, ci si rende conto che non ci sono limiti alla stupidità dell’uomo. Moynaq era diventata una città fantasma; oggi – grazie allo sviluppo del turismo - la situazione è un po’ migliorata, nuove case sono state costruite, le scuole sono attive, vi sono tre alberghi e parecchi bar. Non è più una città fantasma, certo c’è molto da fare, ma un turismo sostenibile può effettivamente aiutare a crescere.
Nukus è la capitale del Qarakalpakstan: una città creata nel periodo sovietico, grandi viali e palazzi imponenti; siamo qui per visitare il famoso Museo Savitsky, una delle più belle collezioni di arte russa del mondo. Savitsky, giunto nel Qaraqalpakstan nel 1950 come artista al seguito di una spedizione etnografica ed archeologica, cominciò subito ad interessarsi alla cultura dell’Asia Centrale e decise ben presto di vivere in questa regione di steppe e deserti. Instancabile raccoglitore di opere d’arte e manufatti frutto di artisti e artigiani assolutamente sconosciuti, ma uniti dal loro essere genuinamente popolo, riuscì a farsi finanziare dal PCUS di Mosca e dalle autorità locali l’acquisto delle opere, proponendo da subito l’idea di un museo “identitario” per i Qaraqalpaki, popolazione povera e spesso bistrattata dall’etnia maggioritaria uzbeka. Quando le autorità riconobbero il museo, Savitsky iniziò ad acquistare e custodire tele in contrasto con la linea ufficiale, opere di artisti invisi al regime sovietico, opere che venivano nascoste quando c’erano le visite ufficiali. Molte di queste erano comprate proprio con denaro pubblico. In particolare egli cercò, a partire dagli anni ’60, di ottenere la collezione completa di ciascun artista, per rappresentarlo nel modo più ampio. Una delle sue preoccupazioni maggiori, persino sul letto di morte, fu quella di pagare agli artisti, o alle vedove, quanto dovuto.
Sono le 9:40 di una domenica di sole quando ci avviamo verso il Museo, che ha la grandezza tipica russo/sovietica negli edifici. Ci viene chiesto se vogliamo avere un incontro con il Direttore o fare direttamente la visita con la guida. Scegliamo l’incontro con il Direttore, Tigran Mkrtychev, veniamo introdotti nel suo studio, lui si presenta e ci racconta le vicende di questo Museo, creato per volontà di Savitsky e poi cominciamo a visitare le sale più emblematiche. Dai quadri di regime agli impressionisti uzbechi, dagli espressionisti ai futuristi alle avanguardie russe e uzbekhe, I e II piano, i costumi delle donne, costumi quotidiani e per il matrimonio, le donne Carakalpache non si sono mai coperte il viso, sculture in legno emblematiche, qualche reperto dell’antica Corasmia.......arriva mezzogiorno che tutti vorrebbero stare ancora lì. Alla fine fotografia con lui, grandi saluti, e in tanti compriamo il libro del Museo.
Partiamo per Kiva alle 12:15 e alle 16 siamo al nostro hotel, nonostante la strada piuttosto sconnessa. Caffè e the gentilmente portati dalla reception, iniziamo la visita di Kiva entrando dal Father’s Gate o West Door e Murod, la nostra guida, ci illustra subito la pianta della città fatta come l’Arca di Noè. La leggenda dice infatti che fu fondata dal figlio Sem, il quale si trovò ad andare nel deserto e un giorno cadde stremato; sognò 300 torce illuminate e un pozzo al centro. Si svegliò, trovò il pozzoe fondò la città di Khiva. Le prime mura furono nel IX sec., poi invasione turcomanna, quindi fu costruita la seconda cerchia, l’attuale. Centro nel XVII sec del Khanato di Corasmia, Kiva subì poi varie invasioni: persiana, russa, infine sovietica nel 1920. Anticamente il regno di Corasmia era molto vasto andando dall’Iran del Nord alla Russia, poi ridotto al Khanato di Khiva conclusosi nel 1918 con la Rivoluzione d’Ottobre.
Nella Città Vecchia vivono 2000 abitanti, non è quindi una città morta o una città-museo. Ci portiamo alla Madrasa Mohamed Amin Khan con il minareto piccolo alto 29 m, che doveva essere di 80 per poter vedere Buchara, ma il re venne catturato dai Persiani a Mashad e giustiziato. La funzione della madrasa un tempo era quella di essere scuola dalla prima classe al college con tutte le materie. Si era ammessi dopo un esame, ma gli studenti dovevano lavorare d’estate nelle terre della madrasa e andare a vendere i prodotti al mercato. Sotto stavano le cellette per studiare 2 a 2 e sopra le stanze per dormire. Si era sorvegliati attraverso le finestre. Poi le stesse madrase, come si può vedere, vennero trasformate in hotel e ristoranti! E date ai privati!!
All’interno dell’Ark, simbolo del potere dei khan, ammiriamo nel cortile del ricevimento un Iwan con 2 magnifiche colonne e di fronte una piattaforma di legno. In inverno il khan stava sulla parte rialzata con la tenda, illuminato dal raggio di sole e d’estate sotto l’Iwan, dove ci sono le tre porte a “gradini” per entrare: poveri a sinistra basso; ricchi al centro medio; khan a destra alto. Tuttavia alla base della colonna di sinistra c’è una frase emblematica in alfabeto arabo: “ricordati khan che devi trattare tutti allo stesso modo, perchè Allah ti vede e poi nell’al di là saremo tutti uguali!”
Ci ha colpito il Mausoleo Pahlavon Mahmud. Molto bello: lui era un wrestler leggendario, vissuto nel XIII sec., che sconfisse tutti gli sfidanti tranne uno, per non farlo uccidere dal Khan. Fu anche poeta e condottiero, molto amato, considerato quasi un santo. Nell’edificio la tomba al centro è di Rakhim Khan II (metà ‘800), quella nella saletta a sinistra di Pahlavon: c’è un Imam che salmodia, è tutto molto mistico. All’esterno le tombe dei parenti, ma anche di altre persone, perchè tutti volevano farsi seppellire accanto al wrestler.
Poi visitiamo la meravigliosa Juma Mashid con le 218 colonne di legno, due delle quali del XI sec., dove hanno pregato anche Erdogan e consorte(!), ed infine l’Harem, dove non ci sono turisti. Interessanti i 4 Iwan, uno per moglie, sopra la fascia più alta cambiano anche le decorazioni in base alle stagioni.
Buchara – oasi in mezzo al deserto delle sabbie rosse, la città più sacra dell’Asia Centrale – ci accoglie all’interno della shahristan, la città vecchia, con la splendida Lyabi-Hauz, la grande vasca e piazza. Il nostro albergo è a due passi, siamo immersi in moschee e edifici antichi, pieni di fascino. E’ vero, molti cortili sono occupati da venditori di souvenir e sulle strade più ampie affacciano negozi, ristorantini, alberghi, ma basta spostarsi un po’ o vagare per i vicoli per ritrovare la vera dimensione della città.
Il Mausoleo di Ismail Samani, completato nel 905 DC, è uno dei monumenti più antichio di Buchara, restaurato solo in minima parte. Sorge su un antico tempio zoroastriano e haforma quadrata, in alto la cupola e 4 cupolette, 40 finestrine. Dall’alto si vede il quadrato che è la terra, il cerchio inscritto = cielo, cerchio grande e 4 cerchi piccoli = mandala. Samani nel tempo è diventato “santo”, numerosi i pellegrinaggi alla sua tomba, che è stata aperta al culto negli anni ’80..
Poi Nurik ci porta al Chasma Ayub, costruita in momenti diversi: cupola conica XII sec., mura quadrate XIV sec, splendido portale e completamento nel XVI sec. All’interno un Museo dell’Acqua, con belle foto del lago di Aral e della sua “eliminazione”. Il sepolcro che c’è si dice sia quello di Giobbe, in realtà non lo è, ma la leggenda racconta che qui egli fu ben accolto, nutrito, ospitato e così, quando decise di andarsene, fece “nascere” a 15-20 km una sorgente, un pozzo che garantiva l’acqua agli abitanti ed alimentato le numerose vasche della città. I pozzi venivano scavati, ogni 40 km, perchè i cammelli con il caldo potessero bere; erano poi coperti con grandi tele, ma venivano lasciati 2 fori di apertura in modo che il vento passasse, per impedire l’evaporazione dell’acqua. A Buchara vi erano 400 vasche, centinaia di mederse e moschee prima che arrivassero i sovietici: c’è da dire che l’acqua delle vasche era piena di batteri, per cui gli abitanti morivano giovanissimi. I “compagnucci”, come Nurik definisce i sovietici, chiudendole hanno fatto alzare la vita media!!!
Andiamo alla Bolo-Hauz con le sue 20 colonne, che si riflettono nell’acqua, snelle ed elegantissime; siamo nel quartiere aristocratico e quando i nobili uscivano di casa vedevano le colonne riflettersi nell’acqua per cui sembravano 40! Era moschea del Venerdì e luogo di culto del sovrano. In realtà qui vivevano i sufi, questi anacoreti sovvertitori dell’ordine costituito perchèpredicavano l’amore per giungere ad Allah. Erano dervisci e vivevano di carità, non rispettando sempre le ferre regole della Sharia: per questo erano malviste dai musulmani ortodossi.
Ecco la piazza Kalon! Lo straordinario minareto Kalon, costruito nel 1127 da Arslan Khan è alto 47 m, ha fondamenta profonde 10 m e non ha mai avuto bisogno di restauri sostanziali. Presenta 14 fasce di piastrelle smaltate azzurre, caratteristica poi dell’Asia Centrale, e fu persino risparmiato da Gengis Khan, per un cattivo presagio se lo avesse fatto. Narra la leggenda che Arslan Khan uccise un imam dopo un litigio, ma l’imam gli apparve in sogno ordinandogli che la sua testa giacesse in un luogo dove non potesse essere calpestata, così Arslan costruì il minareto e seppellì là sotto la testa dell’imam. Vicino al minareto c’è la Moschea Kalon del XVI sec. che può contenere 10000 persone e che fu restituita al culto nel 1991. Di fronte la Medresa di Mir-i-Arab, ancora attiva con tanto di studenti.
Finalmente area Toki Zagaron, con la Ulugh Beg Madrasa 1417 e la dirimpettaia Abdul Aziz Khan . Interni superbi, in parte da restaurare e per questo più veri. All’interno le solite bancarelle di souvenir, per fortuna meno asfissianti. Vediamo gli altri mercati coperti, poi alla meravigliosa Maghoki-Attar, portale del IX secolo, resto del XVI, in restauro. E’ forse il luogo più sacro della città, perchè all’interno vi erano un tempio zoroastriano e, più sotto, un santuario buddhista; forse fu anche sinagoga sino al XVI sec.
Ci rimane per fortuna un po’ di tempo per vagare, fare qualche acquisto, soffermarci nei luoghi che ci sono piaciuti di più, salutare il Minareto Kalon, riposarci nel bel cortile del nostro albergo.
Siamo quasi giunti alla conclusione del viaggio e ci attende la più conosciuta e gloriosa città dell’Uzbekistan,
Ibn Battuta “Una delle più grandi e belle città del Mondo” (1356)
La mitica Samarcanda. Scrittori e poeti l’hanno immortalata nei vari secoli ed è entrata nel nostro immaginario come emblema della Via della Seta, crogiolo multietnico e grande mercato. Fondata nel V sec. AC, ma già celebre ai tempi di Alessandro Magno, nodo dove si incrociavano le strade di Cina, India e Persia, vide aumentare rapidamente gli abitanti, pur passando ogni due secoli da un impero all’altro. Timur lo Zoppo nel XIV la rese magnifica, essendo il centro del suo vastissimo impero e la sua opera fu continuata dal nipote Ulugh Beg. Ebbe un periodo di decadenza, dovuto allo spostamento della capitale a Buchara e a numerosi terremoti. La vera rinascita si ebbe con i russi nel XVIII sec. e poi con i sovietici, che realizzarono vasti interventi di restauro e di sistemazione dei monumenti.
Partiamo per il Registan; non c’è nessuno quando entriamo, il colpo d’occhio è straordinario! Mercato dal Medioevo alla metà del XX secolo, la piazza del Registan presenta tre Mederse: Ulugh Beg, Sher Dor e Tilla-Kari. La prima è del 1420 e fu costruita in soli 5 anni da Ulugh Beg; qui c’è il museo dell’Astronomia, con i protagonisti in primo piano: lui aveva invitato oltre 100 astronomi da tutto il mondo per un grande meeting; Ulugh beg insegnava qui, aveva i suoi studenti e anche il suo maestro. La madrasa era accessibile dai 16 anni e si studiavano tutte le discipline, oltre all’Islam. Nell’altra sala c’è la storia di Samarcanda, dalla carta tratta dalla corteccia di gelso e per questo detta di seta, agli attrezzi da lavoro, alle foto del tempo, alla moneta con tre cerchi, che rappresentavano i tre mondi: Asia, Africa, Europa, dato che ai tempi di Timur l’America non era stata ancora scoperta. Per questa medersa c’è stato un forte intervento sovietico, che ha raddrizzato il minareto di dx che stava cadendo sulla medresa stessa, come si può vedere dalle foto..
La Tilla-Kari è del XVII sec., prima vi era un caravanserraglio, una struttura “allungata” con il cortile centrale per le merci, necessario per ragioni estetiche, altrimenti se si fosse fatta una moschea sarebbero rimasti 2 “vuoti” alle estremità; poi il caravanserraglio è stato trasformato in Medersa. La Tilla Kari è tutta decorata con foglie d’oro; all’interno moschea con minbar e mirhab e spazio piccolo per il culto. Le due ali laterali hanno foto bellissime di com’era ridotta la madrasa prima degli interventi di restauro 1890-1930. Qui vediamo anche i sistemi di decorazione delle piastrelle: un primo tentativo è ornamento semplice, poi un secondo scanalando la mattonella con i disegni, ma lascia delle tracce il colore; infine con la tecnica del mosaico, tagliando pezzettini di carta dal disegno, mettendoli sulla piastrella, colorandoli senza sbavare e poi cuocendo la mattonella.
Infine la Sher Dor, con la faccia del leone, ha necessitato 17 anni per il completamento avvenuto nel 1630. Prima vi era una kanaka, la casa dei dervisci; vediamo la stanzetta degli studenti, il tavolo su cui studiavano e mangiavano, il piccolo forno, il soppalco per dormire. Poi andiamo alla prova dei vestiti d’epoca, con Gianmarco che si trasforma in derviscio e Grazia che indossa l’abito delle donne.
Credo però che il luogo più stupefacente di Samarcanda sia il complesso di Shah-i-Zinda, la tomba del Re Vivente: egli era Qutham ibn- Abbas, cugino del Profeta Maometto, che si dice abbia portato l’Islam in queste aree. Il suo mausoleo ora si trova alla fine della via sulla destra ed è molto articolato, ma un piccolo mausoleo qui esisteva ben prima dell’invasione islamica (700 circa) quando tutti i templi erano zoroastriani. La Shah-i-Zinda cominciò ad assumere la forma attuale quando Tamerlano e Ulug Beg decisero di portarvi le tombe dei familiari. Le stanze fresche e silenziose sono decorate da cima a fondo con stupende piastrelle timuridi di ricchi blu e giallo ocra. Particolarmente belli sono i mausolei di Shodi Mulk Aga e Shodi Bika Aga con portale a cupola costruiti nel 1372 come luoghi di riposo della sorella e della nipote di Timur.
Successivamente, nel XV secolo, Ulugbek seppellì anche i suoi favoriti vicino al santuario sacro originario di Qutham ibn Abbas. Lo scienziato e astronomo Kazi Zade Rumi fu sepolto in un mausoleo paragonabile a quelli della famiglia reale. Sotto Ulugbek, tra il 1434 e il 1435 fu costruita anche la porta d'ingresso principale.
Purtroppo una decina di anni fa Karimov fece fare un restauro quasi a lucidare le piastrelle, così una parte del fascino di questo sito straordinario è andata perduta!
E’ ora di rientrare in Italia e portiamo con noi un duplice bagaglio: quello degli indumenti e quello delle impressioni, delle emozioni, delle nuove conoscenze sia di compagni e compagne di viaggio sia delle persone con le quali siamo entrati in sintonia, che ci hanno fatto apprezzare ancora una volta il perchè del viaggiare.