...la spiritualità jainista. Tra induismo e islam
Prima di iniziare a raccontare le esperienze vissute in questo viaggio, nel quale abbiamo incontrato l’induismo e l’islam ma soprattutto la spiritualità jainista, vorrei ringraziare la mia compagna di vita che riesce sempre a stupirmi con il suo entusiasmo nel vivere la scoperta di nuove culture e con la sua capacità empatica di favorire gli incontri umani, e mia mamma dalla quale ho ereditato la curiosità, senza la quale ogni viaggio è uguale a qualsiasi altro ed il viaggiare perde la sua peculiarità legata alle nuove conoscenze, culturali ed umane. L’aspettativa, mai delusa in India, di respirare un’atmosfera di spiritualità e religiosità insolita e poco conosciuta è stata la molla che ci ha spinto a scegliere questo viaggio. Non ricordo più dove ho letto un modo di dire che esprime bene come in tutta l’India la religiosità sia una ragione di vita: “In India non puoi dire di essere ateo, tuttalpiù puoi dire di essere un ateo indù, un ateo mussulmano, un ateo cristiano …..”, oggi penso che questo detto sia radicato nel cuore profondo di ogni essere umano . Il Gujarat, situato nella parte nord-occidentale del paese, è stato terra di passaggio durante il grande esodo che all’indomani dell’indipendenza ha visto protagonisti i mussulmani che avevano “scelto” di traferirsi in Pakistan, anche se poi buona parte di essi ha “preferito” rimanere nella propria casa indiana. Per questi fatti storici in Gujarat convivono, non sempre pacificamente, l’induismo e l’islam. Nel recente passato i fanatici delle due religioni sono stati protagonisti e/o vittime di “pogrom” reciproci che hanno causato molte vittime. Questo nella terra che ha visto crescere e radicarsi il Jainismo nonviolento di Mahavira, i cui fedeli hanno eretto due dei più famosi e venerati santuari di tutta l’India, nonché terra natale del Mahatma Gandhi, profeta della ahimsa. Le incomprensioni ed i pregiudizi sfociati nell’intolleranza hanno portato alla radicalizzazione delle posizioni delle due comunità che, ovviamente, influenza moltissimo la vita quotidiana. Questo ha determinato l’affermarsi di sette induiste radicali come quella di Swaminarayan e forme di integralismo, tra cui lo chador nero per le donne, nella parte mussulmana. In tutto lo stato non si trovano alcolici, almeno al mercato legale, la cucina è quasi completamente vegetariana – tanto che i pochissimi ristoranti che servono carne ostentano grandi insegne “No veg” – ed in molti templi si entra solo con i vestiti che hai indosso: niente zaini, niente oggetti di cuoio, no smartphone e tantomeno macchine fotografiche.
22 dicembre - Dopo un volo notturno da Roma a Mumbai …. 23 dicembre
… arriviamo in tarda mattinata ad Ahmedabad con un comodo volo interno. Sistemazione in albergo e poi al Swaminarayan Temple per la puja serale e l’offerta purificatrice del fuoco, l’arati. Il tempio è stato costruito dai seguaci di Swaminarayan Bhagwan, vissuto nella prima metà dell’ottocento, e da loro ritenuto l’Essere supremo che professava e diffuse un induismo piuttosto severo, discriminante nei confronti delle donne e legato prevalentemente al culto di Shiva e Ganesh – quindi Parvati, consorte e madre dei due, è stata relegata in una piccola porzione del tempio e lontana dalla sala di culto principale, questo, per contrappunto, ha generato una profonda ed intensa devozione da parte di tutte le fedeli indiane. Il tempio, costruito con legno di tek proveniente dalla Birmania, ha vistose decorazioni abilmente scolpite e brillantemente colorate che arricchiscono le già armoniose forme dei pilastri e degli archi. Scintillanti festoni di luci policrome lo adornano fuori e dentro a conferma della celebrazione della vita che caratterizza tutto l’induismo, in qualsiasi forma si manifesti e qualunque divinità sia venerata - nessuno è mai riuscito a catalogare esattamente quante sono le divinità oggetto di culto in tutta l’India, sicuramente sono diverse centinaia di migliaia. Arriviamo al tempio un po’ prima dell’inizio della cerimonia, insieme a noi cominciano ad arrivare anche le donne, alcune in compagnia dei figli altre delle mamme anziane, tutte con i sari della festa; è sorprendente come i colori dei vestiti si intonino con quelli del tempio tanto da formare una omogenea armonia cromatica. Incuriosite dalla nostra presenza ci coinvolgono con domande e foto, ridiamo con loro reciprocamente contente dell’incontro e quando iniziano le preghiere i nostri sguardi si intrecciano, quasi volessero seguire il ritmo della litania, partecipi della sacralità del momento. Quando poco dopo arrivano gli uomini ci accorgiamo dai loro sguardi che sono contrariati dall’intimità che si è creata tra le donne; poi avviene la divisione: loro si sistemano vicino all’immagine sacra e le donne sono relegate al di là della transenna che divide in due la sala di preghiera, ma solo poche di loro rimangono sedute. Molte, quasi tutte, si alzano e vanno a celebrare la loro purificazione della terra impastata con l’acqua nella parte del tempio dedicata a Parvati. E allora la celebrazione maschile è visibile da tutti mentre dall’intimità del rito femminile è escluso lo sguardo maschile. Mi commuove il gesto di una giovane donna che finite le preghiere, prima di abbandonare questa parte del tempio, saluta la statua dello Swami agitando la mano come farebbe per prendere commiato da una persona amica. La cerimonia è caratterizzata da preghiere e canti mentre il bramino officiante rotea nell’aria la lanterna accesa, sia verso la statua che verso i fedeli, per purificare la divinità ed i presenti dagli influssi negativi delle onnipresenti entità maligne.
24 dicembre
Al mattino presto partiamo per Bajana e lungo il tragitto ci fermiamo per la visita di due importanti pozzi a gradini (vav o baoli). Questo tipo di pozzi si trovano quasi esclusivamente in Rajastan e Gujarat, regioni quasi desertiche in cui il problema dell’acqua ha sempre assillato le sue genti. Per le famiglie regnanti del passato la costruzione di queste opere era motivo di prestigio perché avevano una valenza non solo di tipo sociale ma anche di tipo religioso - probabilmente legato agli antichi culti delle acque - tanto da considerarlo un obbligo morale. La tendenza tutta indiana di trasformare anche le cose del quotidiano in opere d’arte ha fatto si che i pozzi venissero decorati con bassorilievi di stupefacente qualità ed illustranti scene delle attività di tutti i giorni, sia umane che divine. Alla periferia di Ahmedabad visitiamo l’Adalaj Vav, molto ben conservato perché è rimasto interrato per molti anni, si caratterizza per la pianta ottagonale e per i cinque livelli che permettevano di attingere acqua ad una profondità di circa quindici metri. La costruzione risale alla fine del XV secolo, tutta la struttura è in arenaria color ocra e scolpita con bassorilievi in stile indo-ariano che ricoprono pilastri ed architravi senza soluzione di continuità. Nei prati intorno al pozzo incontriamo molti bambini che le maestre hanno accompagnato qui per la visita ed per una lezione all’aperto centrata sulla storia del loro passato. Appena arrivati, le maestre stendono un grande telo sull’erba ancora bagnata di rugiada, poi i bambini si tolgono le scarpe, si siedono ordinatamente e, dopo aver recitato tutti insieme ad alta voce una preghiera dedicata a quale divinità non so dire, fanno colazione mangiando da piccoli contenitori portati da casa; mi incanto a guardare tutta la scena tanto che solo alla fine riesco a scattare qualche foto. In tarda mattinata arriviamo a Patan per ammirare il Rani-ki-vav che stupisce per la grandezza e per la raffinatezza dei bassorilievi che ricordano per bellezza e maestria quelli dei templi di Kajuraho e raffigurano in prevalenza gli avatar di Vishnu. E’ il più grande e bello di tutto il Gujarat anche se la parte alta è molto rovinata, meglio conservati sono i livelli inferiori dove le sculture, protette anch’esse dal fango, si lasciano ammirare lungo fasce continue che coprono interamente tre lati dello scavo, dal quarto si accede scendendo ripidi gradini. Unici europei presenti in mezzo ad una moltitudine di turisti indiani finiamo per suscitare molta curiosità ed è veramente divertente mettersi in posa con loro per i tanti selfie che ci chiedono o ammirare le mani di una giovane sposa artisticamente decorate con elaborati disegni di henne. Nel pomeriggio scendiamo verso Modhera per visitare il Sun Temple dedicato a Surya, divinità solare paragonabile al greco Elios. Il complesso è composto da un padiglione di accesso, dal tempio vero e proprio e da un pozzo a gradini a pianta rettangolare che raccoglie ancora molta acqua. Sia il tempio che il padiglione sono sorretti da colonne scolpite con scene tratte dai due poemi epici dell’induismo: il Ramayana ed il Mahabharata. L’interno del tempio presenta dodici nicchie nelle quali sono scolpite le diverse rappresentazioni del dio nei vari mesi dell’anno, l’esterno è interamente scolpito con bassorilievi realizzati nello stesso splendido stile di quelli del Rani-ki-vav. Purtroppo è crollata, forse a causa delle scorrerie dei sultani moghul, la guglia o sikhara che completava il tempio, di essa rimane solo la base e questo francamente rende la costruzione “monca”, alterando la primitiva armonia che possiamo ricostruire solo mentalmente. Sarebbe interessante fare una visita all’alba, in occasione degli equinozi, per vedere il sole illuminare la statua del dio. Il suono di una campana attira la nostra attenzione sulla devota processione di un piccolo gruppo di donne, vestite con gli immancabili sari ai quali la luce del tramonto esalta i colori, che procede verso la statua di Shiva di una minuscola edicola vicina al grande tempio. Prima di entrare avvertono il dio suonando la campana poi si soffermano a bagnare ed accarezzare la statua del toro Nandi per poi sussurrargli nell’orecchio le preghiere e gli affanni quotidiani, sicure del fatto che le riporterà fedelmente al dio. In serata siamo a Bajana dove alloggiamo, grazie alla nostra coordinatrice Nicoletta, al magnifico Royal Safari Camp che ci serve una ottima cena che noi completiamo con cioccolato e torrone di Tonara, per non dimenticare che è la vigilia di Natale.
25 dicembre
Oggi “safari”. Partenza alle sette con un camioncino scoperto, ed un freddo natalizio degno di quello europeo, per fare un giro nel Little Rann of Kutch, una riserva naturale dove con un po’ di fortuna avvisteremo alcuni animali tipici di questa regione. Piano piano il sole mitiga il freddo della prima mattina e ci godiamo una bella passeggiata in un paesaggio prevalentemente desertico, anche se non manca qualche specchio d’acqua, dove rari alberi e più numerosi arbusti hanno il loro bel daffare per sopravvivere su un terreno che trasuda sale asciugandosi. Siamo fortunati e riusciamo a vedere molti animali tra cui numerosi asini bianchi indiani che sono presenti solo qui nel Kutch, poi anche antilopi, aquile, gru, fenicotteri, pellicani e molte altre varietà di uccelli acquatici. Tutta l’area è disseminata di originali strutture per raccogliere l’acqua durante i monsoni estivi: sono costituite da una piccola collinetta di terra battuta circondata da un fossato destinato a raccogliere l’acqua che scorre lungo i fianchi del piccolo rilievo. Dal momento che ci aspetta una lunga tirata fino a Bhuj partiamo prima di pranzo, ragion per cui i responsabili del Royal Safari Camp ci consegnano il cestino da viaggio incluso nel pacchetto acquistato. Lungo il tragitto ci fermiamo per vedere una piccola fabbrica di tessuti stampati, interessante più per le difficili condizioni in cui lavorano gli operai che non per la qualità delle stoffe. Poco più avanti il nostro autista Ahmid si ferma vicino ad un cantiere e lascia alle donne che stanno lavorando alcuni dei nostri cestini che, intatti, avevamo affidato a lui che certamente ha saputo farne l’uso più appropriato. Lungo le strade indiane vi capiterà sempre di vedere le donne impegnate nei lavori manuali nei cantieri ed allora non mancate di notare lo stridente contrasto tra i colori dei sari, resi sgargianti dall’intensa luce del sole, e il piatto grigiore del cemento e dell’asfalto. In serata arriviamo a Bhuj e decidiamo di vedere prima di cena il nuovissimo e sfolgorante di marmi bianchi Swaminarayan Temple. Costruito nel secolo scorso dai seguaci dello stesso Swami, si distingue da quello di Ahmedabad per la quasi totale assenza di colori - qui tutto è bianco con qualche dettaglio dorato – se si eccettua la grande statua di Shiva colorata di celeste e posta al centro del giardino di ingresso. Da ammirare la qualità delle sculture e dei fregi che ornano le volte dei sikhara, minute ed eleganti nonostante il bianco non ne esalti i mirabili dettagli.
26 dicembre
Di prima mattina visita a quelle che vengono chiamate le Tombe Reali: piccole costruzioni in stile moghul con pochissime influenze indù molto rovinate dai terremoti, però quello che si può ancora vedere dimostra chiaramente la capacità degli architetti e la perizia degli scalpellini nel restituire con la pietra la magnificenza di quel periodo. Prima di lasciare il centro della città vale la pena una visita al Darbargadh, un complesso di edifici fatti costruire dai vari regnanti del passato che purtroppo portano evidenti i segni del forte terremoto del 2001. Dei tre palazzi maggiori solo l’Aina Mahal è visitabile in parte. La visita si rivela interessante per la ricchezza e bizzarria degli arredi che risentono dell’influenza occidentale, una sorta di contraltare all’orientalismo europeo dello stesso periodo (XVIII secolo). Notevole la qualità degli oggetti esposti, il “barocco” delle ridondanti cornici degli innumerevoli specchi e la bellezza degli stucchi che rivestono alcuni salotti e sono impreziositi da decorazioni floreali bleu ed oro. Colpisce la presenza di molti turisti indiani, intere famiglie che aspettano pazienti di poter entrare per ammirare la bellezza degli arredi interni e commentare la loro storia sentendosi orgogliosi di quello che i loro antenati hanno saputo realizzare. In cerca di un chai nelle strade vicine siamo attratti dai fedeli che devotamente offrono fiori, le donne porgendoli con una sola mano dopo averli poggiati sulla fronte, gli uomini con entrambe le mani giunte, ad un vecchio sadhu, seduto all’interno di una piccola nicchia ricavata nel muro esterno di una casa, che ricambia con benedizioni o consigli se interpellato. In tarda mattinata partiamo per un largo giro nel Great Rann of Kutch, terra dei nomadi rabari e disseminato di villaggi in cui le etnie locali, jat, ahir e harijan si dedicano a lavorazioni artigianali di stoffe, pellame e ceramica. A Bhujodi, il villaggio più importante, tessono con telai a mano stoffe, sia di cotone che di lana, che poi le giovani donne arricchiscono con ricami molto colorati e piuttosto naif. Nel grande negozio, pieno zeppo di innumerevoli oggetti e souvenir artigianali è stato molto difficile orientarsi ed apprezzare quello che di bello era esposto. Come sempre accade in queste piccole realtà l’esperienza emotiva che rimarrà indelebile nella memoria è quella che fanno vivere le persone che si incontrano per le strade. Ricordo il vecchio dalla barba bianca che dimostra come sia capace di realizzare una campanella senza saldature solo battendo il metallo in modo originale e sapiente, le piccole venditrici di bamboline, singole o a coppie e coloratissime, con le quali giochiamo a fotografarle e loro si divertono mettendosi in posa, facendo le boccacce, ridendo e tenendosi strette – da loro comprimo tante coppie di bamboline per farne omaggio gradito a chi si aspetta da questo viaggio un souvenir insolito - ed i ragazzi che, con un tornio improvvisato realizzano piccoli mattarelli sui quali poi colano diversi colori per formare disegni imprevedibili, inutile dire che uno di questi orna la nostra cucina. Nel pomeriggio visitiamo una fabbrica pluripremiata dove fanno tessuti con la complicata tecnica ikat: i fili della trama e dell’ordito sono precolorati a tratti in modo tale che quando sono intrecciati ed allineati nel modo giusto si formino i caratteristici disegni oblunghi. Sta all’abilità della tessitrice far si che si generi una serie di disegni con il bordo piacevolmente sfumato. Nella cittadina di Hodka hanno realizzato il Sha-e-Sarhad Village che invece è diventato famoso per le stoffe con i disegni ricamati a mano che sono molto apprezzati nel mercato interno e che vengono anche esportate. In un laboratorio sotto un portico incontriamo due donne che ricamano mantenendo una compostezza che dona loro una regalità profonda, sono così intensamente coinvolte nella loro arte che sembra, punto dopo punto, che stiano ricucendo il mondo o rammendando il tessuto lacerato dell’anima. L’eleganza delle mani ed i sari lussuosi le fanno apparire come due incantatrici intente, con la ritmicità dei punti, a tessere i fili della vita e del destino ….. quanto ci piacerebbe sentire le storie che stanno raccontando quei fili! Poi una corsa contro il sole calante per cercare di arrivare al White Desert prima del tramonto, ma non abbiamo fatto i conti con il Festival del solstizio d’inverno che ha riempito le strade di pellegrini. Arriviamo quando il sole è già all’orizzonte ed il famoso deserto di sale non ci appare proprio deserto dal momento che è pieno di persone che passeggia, gioca e si gode il calar della sera sulla bianca distesa che ormai sta irrimediabilmente perdendo il suo candore. Cercate di arrivare quando la luce del sole può ancora generare bagliori da questa emozionante candida distesa di sale.
27 dicembre
Oggi la tappa più lunga fino a Dwarka. Su consiglio del nostro autista Ahmid, visitiamo un piccolo tempio induista nel quale sono oggetto di culto le tombe di due innamorati che, sepolti ad una certa distanza, anno dopo anno, si stanno lentamente riavvicinando. Mi commuove la devozione che i fedeli di questo villaggio hanno per l’amore terreno portatore di vita. Poi lunghe ore di pulmino, fino a Jamnagar, attraverso un paesaggio semidesertico, pianeggiante e monotono, caratterizzato da chilometri e chilometri di saline che sfruttano l’acqua salmastra della falda superficiale. Per sgranchirci le gambe camminiamo sul bel lungolago del Ranmal Lake sino al Bala Hanuman Temple che è famoso non tanto per il culto del dio scimmia Hanuman quanto perché è annoverato nel Guinness dei primati: è dal 1964 che un gruppo di fedeli si alterna per cantare senza sosta una preghiera in onore di Rama, uno degli avatar di Vishnu. A Dwarka visitiamo il Dwarkadhish Temple, che è uno dei più antichi della regione. La sua prima costruzione risale al V secolo a.c., da allora è stato ricostruito più volte a causa di terremoti e incursioni mussulmane, ma ha sempre conservato il suo aspetto architettonico e cromatico originario essendo realizzato con una grossolana, sobria e calda arenaria rossa. Sulle colonne e gli architravi sono scolpiti bassorilievi decorativi tipicamente indù che si ispirano ai miti narrati nel Mahabaratha, dal momento che il tempio è dedicato a Krishna. Su tutto il complesso spicca un maestoso ed altissimo sikkara. Ci sono due ingressi separarti, uomini e donne, ed è necessario mettersi in fila in mezzo ai moltissimi fedeli e percorrere gli strettissimi passaggi tra le colonne lungo i quali il miglior atteggiamento da tenere è quello di lasciarsi guidare dai corpi che ti spingono da tutte le parti, qui veramente si può parlare di contatto umano, o corporeo se preferite. Tra la curiosità di bambini ed adulti - inutile dire che siamo gli unici occidentali - che ci regala momenti di allegria senza offendere la sacralità del luogo, riusciamo finalmente ad intravedere la statua del dio incredibilmente adorna di sontuose e coloratissime vesti e quasi ricoperta di fiori.
28 dicembre
Da Dwarka a Junagadh passando per Porbandar, città natale di Gandhi. La casa di Gandhi ha un bel portale sul quale sono stilizzati due arcolai, dal cortile interno ben tenuto si accede alla casa salendo una stretta scala. Tutte le stanze sono improntate ad una semplicità francescana resa ancora più evidente dai pochissimi oggetti che le arredano; non è difficile immaginare Gandhi aggirarsi in questi ambienti perfettamente armonici con lo stile di vita che seguirà da adulto. Non si può ignorare che la parte abitativa avrebbe bisogno di qualche lavoretto di manutenzione e restauro, mentre la parte dedicata a museo è in migliori condizioni e veramente completa per quanto riguarda la storia della vita dal Mahatma. Interessanti sono le molte fotografie che lo ritraggono in vari momenti della vita pubblica e di quella privata, foto rese ancora più affascinanti dal tempo che ha spalmato sulla carta la caratteristica sfumatura color seppia. Tra i moltissimi visitatori, che affollano tutti gli ambienti a testimonianza della loro gratitudine verso grande uomo fondatore dell’India moderna, incontriamo un gruppo di giovani ragazze di una scuola locale che non perdono l’occasione per farsi foto e selfie con noi e con i nostri compagni di viaggio - a questo proposito, occorre dire che la preferenza va alle ragazze ed i ragazzi con i capelli chiari, meglio se biondi e ricci. L’operatore di una TV locale mi coinvolge in un intervista per un servizio su Gandhi. Alla domanda su che cosa provo in questa visita, rispondo che stavo riflettendo su quanto il Mahatma sia stato importante per l’India e sia un esempio di potente coerenza per tutta l’umanità e che uomini e donne che hanno fatto della coerenza la loro ragione di vita ci sono anche oggi, e porto come esempio Vandana Shiva, la fisica ed instancabile ecologa loro connazionale. Poco distante dalla casa natale, in una piazza minuscola, si può vedere il Kirti Mandir, una piccola statua commemorativa raffigurante Gandhi che, se pure con le sue modeste dimensioni evochi l’umiltà del grande nonviolento, quasi scompare in mezzo al traffico ed all’indescrivibile caos - solo chi ha avuto il piacere di visitare l’India sa di che cosa parlo quando dico “caos”. Arriviamo a Junagadh nel primo pomeriggio e visitiamo l’Uparkot Fort la cui prima costruzione risale al IV secolo a.c.. Per svariati secoli è stato il protagonista di molti assalti ed assedi, taluni dei quali risoltisi positivamente grazie alle sue possenti mura e a due profondissimi vav che assicuravano il fabbisogno d’acqua. I pozzi sono l’attrattiva principale del forte con le loro ingegnose scale a chiocciola, non altrettanto si può dire della piccola moschea e delle grotte dei primi monaci buddisti, oggi molto rovinate anche se alcuni dettagli meglio conservati ci dicono che in origine dovevano essere molto belle. Al tramonto siamo al complesso del mausoleo di Mahabat Maqbara e del Vazir’s Mausoleum. Ambedue presentano un’architettura di difficile interpretazione ma estremamente bella e complessa – le guide li definiscono come gli esempi più belli di architettura euro-indo-islamica del Gujarat – hanno colonne classiche, finestre stile liberty, innumerevoli guglie e cupolette sui tetti e stucchi decorativi elaboratissimi. Inoltre il Vazir’s Mausoleum è caratterizzato da quattro minareti isolati con le scale a chiocciola poste all’esterno – per quanto ne sappiamo questa soluzione architettonica è un unicum e si può vedere solo qui. Tanta è la bellezza che non resistiamo alla tentazione di salire sulle scale fino al piccolo terrazzino dal quale il muezzin chiamava i fedeli alle cinque preghiere quotidiane; da qui si gode una vista stupenda, le guglie e le cupolette sembrano tanto vicine da poterle toccare, mentre la luce del sole al tramonto rende tutto così caldo che “… ‘ntenerisce il core”. Mentre scendiamo mi trovo a ringraziare l’artefice di queste scale che ha voluto permettere a tutti di avvicinarsi fisicamente al cielo. Purtroppo lo stato dei due edifici non permette la visita degli interni, è indispensabile un intervento di restauro che restituisca loro tutta la bellezza originaria. Li vicino, i costruttori della nuovissima moschea hanno pensato bene di copiare la soluzione delle scale esterne, con risultati tutto sommato accettabili.
29 dicembre
Tutta la giornata è dedicata alla salita al complesso di templi jainisti ed induisti della collina di Girnar Hill. Prima dell’alba siamo al primo dei 10.000 gradini del percorso. I nostri compagni di viaggio, più giovani ed animosi, iniziano a salire con passo spedito, noi contrattiamo con due o tre dei proprietari dei dholi – le spartane portantine che possono evitarti la fatica della salita – ma il prezzo richiesto è così esorbitante (7-8000 rps a persona, prima richiesta, 5-6000 ultima) che rinunciamo e iniziamo a salire con il proposito di arrivare fin dove le forze ce lo permetteranno. Nelle prime luci del giorno il sentiero è percorso da molti giovani uomini che portano a spalla carichi incredibili con i materiali ed il cibo necessari alle persone che vivono ai templi, taluni cercano di ingannare la fatica con la musica diffusa dal loro telefonino. La salita è veramente piacevole per noi con le spalle libere e piena di incontri emozionanti con una umanità varia e colorata a cominciare dai numerosi banchetti che vendono prevalentemente souvenir ed oggetti di culto. Il primo incontro è con il sadhu che vive nella sua cella aperta sul sentiero con appesi alle pareti gli oggetti essenziali, si è appena svegliato e si sta preparando ad accogliere quei pellegrini che vorranno chiedergli consigli sui loro problemi. Un gruppo di ragazzini che incontriamo poco dopo ci ferma e vuole una foto, noi ricambiamo con penne particolari e pupazzetti di peluche che Lucianna ha sempre con se per queste occasioni. Poi c’è la signora sul dholi che ci saluta con un bel sorriso e la monaca jainista tutta vestita di bianco che passa velocissima a testa bassa, con bastone e spazzolino appeso alla cintura, tutta compresa nella sua devozione seguita, a breve distanza e con lei in stridente contrasto, dal fedele jainista di confessione digambara (vestito d’aria) che completamente nudo scende dopo aver passato la notte in preghiera su ai templi. Subito dopo incontriamo la fatica, che non le impedisce di sorridere, della ragazzina con una enorme tanica piena d’acqua in equilibrio sulla testa, il venditore di spremuta di lime che ha aperto il suo banchetto non appena il sole ha cominciato a scaldare l’aria. Chissà quanti incontri stiamo dimenticando adesso, ma di certo non possiamo dimenticare le scimmie che vivono ai lati del sentiero sempre pronte ad approfittare della distrazione dei pellegrini per rubare loro tutto quello che sembra appetitoso e che luccica, come hanno fatto una volta con i miei occhiali, ma questa è storia di un altro viaggio. Così, sosta dopo sosta, foto dopo foto, namaste dopo namaste e selfie dopo selfie arriviamo al primo complesso di templi, quelli jainisti , dopo aver salito circa 4000 gradini. Attraverso una stretta porta sormontata da un arco si accede all’area sacra ed al più importante ed antico Tempio di Neminath, il XXII tirthankara . Mi irrita moltissimo il fatto che non ti permettano di portare dentro zainetto e macchina fotografica, di conseguenza uno di noi deve rimanere a custodirli. Mentre sono di “guardia” e cerco di calmarmi osservando i fedeli che si preparano ad entrare, percepisco una fastidiosa sensazione di fronte alla arrogante pomposità con cui i facoltosi fedeli maschi si spogliano dei vestiti quotidiani, vestono sontuose tuniche ricamate ed entrano nel tempio, pomposità che contrasta e stride rumorosamente con l’umile devozione delle donne che entrano con il sari di tutti i giorni e oltre a pregare si preoccupano anche di pulire. Stranamente l’interno non è sfarzoso come ci aspettavamo anzi è molto spoglio, stimola all’umiltà e invita al raccoglimento. Gli uomini sono seduti al centro della sala e le donne nell’area in disparte a loro riservata che risuona di canti così melodiosi da farmi sentire partecipe della loro sincera devozione. Nel bel chiostro attiguo alla sala principale, mi commuove la giovane donna che, camminando in senso orario intorno al portico, si ferma davanti ad ogni cappella con la statua di un tirthankara e prega genuflettendosi per tre volte. Girovaghiamo tra templi nuovissimi che inglobano interessanti e preziose parti dei vecchi ed altri in restauro, c’è molto fermento di nuovi lavori. Incontriamo i nostri compagni di viaggio che alla spicciolata stanno scendendo di ritorno dai templi più in alto e da loro apprendiamo che vale veramente la pena fare tutti i 10.000 per ammirare non solo i templi induisti ma anche un grandioso panorama, noi sappiamo che dobbiamo accontentarci dei 4.000 ed iniziamo a scendere. La discesa ci riserva un incontro veramente speciale: all’ombra di un grande albero vediamo una numerosa famiglia che sta pranzando ed un gruppo di giovani poco distante. Ci fermiamo un attimo incuriositi e veniamo invitati ad unirci a loro, ben felici accettiamo. Ci offrono chiapati e paratha con verdure varie, yogurt ed un dolce particolare e buonissimo che non saprei come descrivere ma, soprattutto, ci donano un momento di vera comunione umana. Noi contraccambiamo con il torrone che avevamo messo nello zainetto contro i cali di zucchero. Poi le fotografie di rito come per degli amici che si ritrovano dopo tanto tempo, a coppie e di gruppo; a questo punto anche i giovani si avvicinano e, quindi, selfie per tutti. L’abbraccio commosso tra Lucianna e la mamma rende esplicito che cosa è fiorito nei i loro e nei nostri cuori. La giornata potrebbe concludersi a questo punto ma la discesa è generosa e ci offre altri incontri umani, altre strette di mano e altre foto con la promessa di inviarle agli indirizzi e-mail che ci scrivono su fogliettini improvvisati.
30 dicembre
Partiamo con destinazione Diu passando per Somnath dove c’è un tempio meta di un incessante pellegrinaggio e dedicato a Shiva. Pare che la sua santità derivi dal fatto di essere stato distrutto e ricostruito ben sette volte, la sua travagliata storia viene interpretata come segno della volontà divina ed umana di rendere omaggio e santificare questo luogo sulla costa dell’Oceano Indiano. La fama delle ricchezze custodite nel tempio determinò, a partire dall’anno mille, numerose incursioni e saccheggi da parte di regnanti mussulmani, afgani prima e moghul dopo, che causarono la serie di distruzioni e ricostruzioni che hanno reso sacro il tempio. Dopo due secoli di abbandono, alla metà del secolo scorso è avvenuta l’ultima ricostruzione che ha mantenuto il sito originario sulla spiaggia – solo un basso muro separa il giardino del tempio dalla sabbia – e utilizzato quello che rimaneva del vecchio tempio la cui pianta ricalca il modello dei templi indo-ariani con il corpo centrale allungato ed un alto sikhara rivestito di belle sculture. Attualmente è stato interamente dipinto color crema che, a mio parere, non ne esalta certo la bellezza. Preparatevi a lasciare tutto sul pulmino, telefono compreso, perché sono severissimi e non vi lasceranno entrare. Molto bello l’interno ed interessante la cerimonia della “doccia” di latte che i bramini officianti fanno al lingam nero decorato in oro con l’accompagnamento dei mantra cantilinati dalle numerose fedeli presenti che in questo luogo non hanno un posto a loro destinato e quindi possono sedere proprio davanti al simbolo divino. Quello qui venerato è uno dei dodici jyoti linga oggetto di culto in altrettanti templi indiani – sono lingam che si crede si siano formati naturalmente, cioè senza intervento umano, in altre parole sono “pietre lavorate dalla natura”. Non perdete le edicole a fianco del tempio nelle quali sono rappresentate, con insolite statue a dimensione umana vivacemente colorate, le scene più importanti della vita di Shiva. Nel pomeriggio arriviamo a Diu, ex minuscola colonia portoghese che gode di una amministrazione diretta dalla capitale Delhi, pertanto non soggetta al governo gujarati. Questo vuol dire che qui si trovano alcoolici e quindi che la città è meta di un intenso turismo interno, soprattutto nei fine settimana. Semplice e pulita è caratterizzata dai colori pastello delle sue costruzioni di foggia portoghese e dalle numerose chiese tutte dipinte di bianco. Oltre a passeggiare c’è da vedere il Red Fort, abbastanza mal messo, per fortuna dai bastioni si gode una bella vista sul mare e sulle scogliere sottostanti dove i locali raccolgono molluschi durante la bassa marea. Ovviamente ci concediamo un’ottima cena a base di pesce arrosto ed una birretta.
31 dicembre
Partenza prima dell’alba per il mercato del pesce di Vanakbara. Il mercato, che comincia ai primi chiarori del giorno quando gli uomini scaricano il pescato dai pescherecci, è completamente gestito dalle donne per quanto riguarda la cernita e la vendita del pesce. Adesso immaginate un piazzale sul mare, grande più o meno quanto un campo di calcio, con tanti mucchi di pesce quanti sono i pescherecci arrivati, quindi diverse decine, e tante, ma tante donne colorate che si affaccendano per scegliere i pesci migliori che poi saranno venduti ad altre donne che li porteranno ai mercati dei paesi e villaggi vicini. C’è un via vai frenetico da un mucchio all’altro ed un parlare sommesso insolito per un mercato, in un “ordine” molto indiano che assomiglia più al caos che ad una attività commerciale. Non so dove guardare e mentre cerco di raccapezzarmi riconosco che tutto quello che ho sotto gli occhi è quanto di più indiano si possa vedere e nello stesso tempo quanto di più bello ed affascinante abbia mai visto in fatto di mercati e vi garantisco che ne ho visti tanti. Dico questo nonostante non possa nascondere che la vista del pesce buttato in terra mi addolori e mi sconcerti, avverto qualcosa di vagamente sacrilego, ma nei gesti delle donne colgo una premura ed una dolcezza che stempera questo mio sentire. A farmi ricredere completamente ci penserà la signora, che attinta l’acqua dal mare con un improvvisato secchiello ricavato da una tanichetta di plastica, lava il pesce destinato al suo banchetto del mercatino del villaggio con una delicatezza commovente e lo distende senza sussulti nella cesta che poi porterà sulla testa fino a casa. Abbiamo assistito ad una cerimonia che ha tutto il valore di un gesto di scuse per aver sottratto al mare parte delle sue creature. Il sole è già caldo quando lasciamo a malincuore il mercato, molte delle donne hanno già finito il loro lavoro, altre si attardano a comprare pesce secco e verdure da altre donne che hanno esposto la loro mercanzia su teloni distesi a terra, e dove sennò, mentre gli uccelli acquatici stanno ripulendo il piazzale dai residui di pesce. Poi dritti fino a Palitana dove arriviamo abbastanza presto da riuscire a fare una passeggiata prima di cena ed incontrare altra umanità, curiosa quanto noi ed altrettanto disposta a scambiare qualche parola. A cena thali ottimo, panettone e barolo chinato per festeggiare il Capodanno che “verrà”, noi dormiremo già.
01 gennaio
Siccome nel pomeriggio ci aspetta un trasferimento molto lungo decidiamo di partire molto presto per iniziare la salita dei circa 4000 gradini fino alla cima della collina di Shatrunjaya dove è situato il complesso dei templi jainisti di Palitana. Nonostante sia buio pesto il piccolo piazzale da cui parte il sentiero è già pieno di vita e quando arriviamo veniamo circondati dai portatori di dholi, per 2000 rls decidiamo saggiamente di farci portare su perché i postumi della salita e discesa del Girnar ancora si avvertono sulle gambe; i nostri compagni invece, beati loro, hanno ancora forze sufficienti per la salita a piedi. Quella della portantina è un’esperienza strana, contraddittoria: mentre pensi che stai usando questi uomini per non faticare allo stesso tempo pensi che per loro è una buona giornata di lavoro, c’è comunque un leggero senso di colpa in sottofondo e forse sarà per questo che quando arriviamo do loro più di quanto pattuito. Una citazione a parte meritano le donne, anche loro dedite a questo faticoso lavoro ma con tecniche diverse: loro poggiano la stanga di sostegno sulla testa mentre gli uomini sulla spalla. Il sole è sorto da poco quando siamo all’ingresso principale e ci stiamo togliendo le scarpe in mezzo a tanti pellegrini, a portatori che finalmente si riposano e cercano di dormire in una inquietante posizione supina completamente nascosti da una coperta, intere famiglie con bambini in braccio e fedeli che si stanno risvegliando dopo aver trascorso la notte accampati in aree addette a questo scopo. Appena entrati l’atmosfera di mistica aspettativa che si respira ad ogni passo conferma che questo luogo da solo giustificherebbe il viaggio. La cima della collina di Shatrunjaya, ovvero la Città degli Dei, è suddivisa in due complessi (tunk), nord e sud, circondati da mura ed interamente coperti di templi, 863 per l’esattezza, nei quali sono custodite circa 7000 statue che rappresentano i 24 tirthankara. Chiedo agli addetti a quello che sembra un ufficio informazioni dove posso avere il permesso per le fotografie e loro mi rispondono che in tutta l’area sacra è categoricamente proibito fotografare. Con le fotocamere e le scarpe nello zainetto seguiamo il percorso dei pellegrini che, tra templi con sikhara più o meno elaborati ed interni che chiedono una preghiera, chiostri silenziosi e splendidi scorci sul complesso a nord, arriviamo in prossimità dell’Adinath Temple che è la meta principale del pellegrinaggio. Intorno e dentro ci sono centinaia di fedeli ma qui non si ha la sensazione di soffocamento che una situazione simile potrebbe generare, ogni jainista è rispettosissimo dello spazio degli altri e quindi la vicinanza dei corpi suggerisce piuttosto benevolenza ed accoglienza. L’interno del tempio è molto ricco, con decorazioni elaboratissime e statue di qualità eccelsa. E’ qui dentro che si svolgono le principali e più frequentate cerimonie di culto nelle quali commoventi canti sono intonati per venerare Adinath, il primo dei tirthankara e colui che si ritiene essere il fondatore del jainismo prevedico. Tra le altre donne mi incanto a guardare l’espressione rapita ed estatica di una signora di una certa età che canta con una tale devozione da farmi pensare che “… anche per oggi l’umanità è salva!”. Incuriosito da alcune piccole tavolette che ho visto poggiate in un angolo riesco a scoprire il loro uso facendo attenzione all’inusuale modo di pregare dei fedeli presenti: si siedono per terra con la tavoletta davanti e mentre recitano le orazioni compongono su di essa, usando chicchi di riso, zucchero o semi, disegni e figure tra le quali noto piccole svastiche sistemate in modo da formare un preciso schema – è bene dire che non sono le svastiche tristemente note in Europa bensì lo swastika, antichissimo simbolo, anche induista, che simboleggia il moto dell’universo, lo scorrere della vita ed anche la pace e la buona fortuna. La nostra presenza incuriosisce una signora che interrompe le preghiere e ci tiene a spiegarci che la santità del luogo deriva dal fatto che da li Adinath è asceso nel Paradiso jainista dopo aver raggiunto l’illuminazione. Aggiunge che è il dio di tutti e ci invita a sederci e pregare con lei poi, finita la preghiera, prende dalla sua tavoletta alcune mandorle ed una parte del riso e dei semi disfacendo la composizione e ce le dona con l’augurio di pace e serenità. Questo dono inaspettato e commovente ci riempie di profonda gratitudine …. ci lasciamo scambiandoci complici sorrisi. Ogni vero fedele jaina viene in pellegrinaggio qui dove pregando alleggerisce il suo karma e diventa degno della vita nel Paradiso senza più samsara . Ancora pieni di gratitudine ci incamminiamo leggeri, lungo il sentiero che conduce al complesso nord. L’impossibilità di fare foto – ritengo che la giustificazione del divieto stia nel fatto che gli aspetti animistici sono ancora ben radicati nel jainismo e che rubare l’immagine significa anche rubare l’anima - ci consente di girovagare senza una meta precisa gustandoci quello che vediamo e chi incontriamo. Lungo la ripida scalinata che collega i due complessi superiamo due donne che, senza apparente fatica, trasportano sulla testa una pesante lastra di marmo continuando tranquillamente a chiacchierare. E’ sorprendente la grazia dei gesti e l’eleganza del loro incedere sotto il peso, quella grazia che contraddistingue tutte le donne del mondo e che ricordiamo nelle mamme della nostra infanzia quando tornavano dalla fonte con la brocca di ottone lucidissimo sulla testa. Ci giriamo a guardarle accennando un saluto e loro ci regalano un luminoso sorriso. Nonostante l’abbiamo incontrata spesso in India e non solo, sorprende sempre e stupisce quest’immagine della “fatica con allegria”. Subito dopo, un gruppetto di bianche monache (Sadhvis) ci supera in velocità - sembra che abbiano sempre fretta, che temano di perdere qualcosa - camminando con lo sguardo a terra e sempre pronte a spazzolare il terreno o le scale se vedono qualche insetto o delle formiche, ecco la spiegazione dello spazzolino bianco appeso alla cintura. Arrivati al complesso nord ci godiamo la bella vista sulla parte sud, sulla sommità della quale spicca l’alto sikhara dell’Adinath Temple circondato dai contigui templi, tanto vicini tra di loro da formare una massa compatta, protettiva. Non resisto e scatto una o due foto con il telefono senza accorgermi che li vicino c’è un guardiano, subito mi intima perentoriamente di cancellarle davanti ai suoi occhi, ubbidisco senza protestare e cancello. Girovaghiamo entrando ed uscendo da un incredibile numero di templi lasciandoci stupire dalla bellezza e dalla qualità delle statue che ornano le pareti esterne e di quelle poste nella parte più sacra. Davanti ad alcune delle quali ci capita di trovare monache e fedeli intenti a pregare o ad accendere i caratteristici lumini alimentati dal sacro ghi, il burro chiarificato degli antichi riti vedici. Ad essi ci uniamo in preghiera, pur non sapendo bene che cosa dire, volendo essere partecipi di questi momenti di alta spiritualità. Quella sud è la parte più recente di ambedue i complessi e non si può non notare la continuità architettonica degli edifici e quella stilistica degli altorilievi che ne ornano l’esterno, cosa questa mantenuta anche per gli interni, sempre molto ricchi di ori e stucchi colorati ed elaboratissimi soprattutto per quanto riguarda la volta inferiore delle cupole. La ricchezza dei templi contrastata in maniera evidente con la sobrietà, per non dire povertà, della vita monastica, che è rimasta immutata nello stile e nei riti per più di due millenni e mezzo. C’è stata una inusuale e caparbia continuità nei più di mille anni di storia di questo splendido sito, d’altronde il jainismo, sia Digambara che Svetambara, fa della conservazione delle abitudini quotidiane e dei riti una sua peculiare caratteristica. Con calma iniziamo la discesa in mezzo ad un via vai frenetico di portantine e fedeli che salgono e scendono. Mi sorprende la perizia delle donne che sostengono, con un’unica stanga di bambù poggiata sulla testa protetta dal cercine, una grande cesta dove hanno trovato posto una donna ed un bambino e procedono spedite. Noto che ad alcuni alberi sul ciglio del sentiero, oltre alle striscioline di stoffa colorata che simboleggiano le preghiere, sono appesi dei posatoi con il cibo per gli uccelli che viene molto apprezzato anche dagli scoiattoli. E’ quasi l’ora di pranzo per cui incontriamo famiglie, sempre molto numerose, sedute intorno a chapati, roti e verdure con curry che la mamma provvede a distribuire; mi affascina sempre la delicatezza, l’eleganza e la maestria delle mani femminili mentre preparano e porgono il cibo. Così incontro dopo incontro arriviamo alla fine del sentiero dove ci stupisce un moderno tempio induista davanti al quale troneggia un inaspettato ed enorme elefante celeste – chissà se anche lui ha bevuto un sorso di Halahala - che è provvisto di tre proboscidi con le quali regge rispettivamente un fiore di loto, un’anfora ed una torcia, tutti simboli secondari di Shiva. Avendo tempo ci sarebbe da vedere il moderno Shri Vishal Jain Museum, la cui forma a zigurat rotondo e la enorme statua di Mahavira, seduto davanti all’ingresso, incuriosiscono non poco. Il pulmino ci aspetta ed Ahmid guida verso Champaner con solo soste fisiologiche. Ripensando alle emozioni provate condivido con Lucianna la magia di questa giornata come buon auspicio per l’anno che inizia.
02 gennaio
Champaner è stata una delle antiche capitali del Gujarat fino alla metà del XVI secolo quando l’imperatore Humayun spostò la capitale ad Ahmedabad, questo causò un progressivo spopolamento ed il successivo abbandono della città. Il cuore del sito è la cittadella, oggi in parte occupato da un piccolo villaggio, che è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità per la bellezza e raffinatezza delle numerose moschee disseminate nella campagna intorno ad essa. La visita comincia dalla Jami Masjid (Moschea del Venerdì), essa presenta una mirabile ed armoniosa commistione di stile islamico-moghul ed indù che le conferisce il fascino un po’ decadente delle belle cose antiche. Per accedere al cortile, circondato da quello che noi chiameremmo “chiostro”, si passa sotto un portico ornato da meravigliose incisioni e sculture; altrettanto impressionante è la sala di preghiera sorretta da un incredibile numero di colonne, lo splendido mirab in marmo chiaro finemente scolpito e l’assolutamente stupefacente intarsio scolpito su tre livelli che si può ammirare sollevando lo sguardo subito dopo essere entrati. I due alti minareti posti ai lati del portale d’ingresso sembrano due slanciate ed eleganti sentinelle – degna di nota la qualità delle sculture su temi floreali che decorano la loro base. Dopo, con una piacevole passeggiata tra bosco e campagna, durante la quale non mancano incontri piacevoli, visitiamo le altre tre moschee che pur molto rovinate riescono lo stesso a suscitare una certa curiosità. Tra esse la più bella è sicuramente la Kevda Masjid della quale sono da ammirare i minareti, l’interno della sala di preghiera con originali strutture rotonde a volta sopraelevata e le sculture, sempre su temi floreali, del padiglione di ingresso. Nel tragitto verso Vadodara, visitiamo un villaggio che conserva ancora una organizzazione sociale di tipo matrifocale, si deduce questo dalla grande stanza/ capanna comune dove vivono tutti i componenti di uno dei clan del villaggio. Ha una intera parete di circa 10 metri e le due contigue interamente dipinte con figure di elefanti, cavalli e cervi su fondo bianco e sono presenti le poche suppellettili indispensabili alla vita quotidiana di più persone. L’impossibilità di comunicare non ci ha permesso di lasciarci coinvolgere pienamente in questa esperienza di vita sociale fuori dal tempo. Nel primo pomeriggio siamo a Vadodara per visitare il Laxmi Vilas Palace che il maharaja Sayajirao si fece costruire alla fine del XIX secolo in un discutibile e ridondante stile misto indo-saraceno. Bello il parco nel quale è inserito ma non altrettanto si può dire del palazzo che mi suscita le stesse emozioni di tutti i palazzi reali: non riesco a non pensare alla fatica dei tanti operai della casta inferiore, i dahlit, che hanno lavorato e sudato per produrre tutta quella ricchezza. In serata siamo ad Ahmedabad, dove il viaggio è cominciato. Ci concediamo un ristorante no-veg, scelgo un afgani chiken e lo trovo veramente ottimo. Il cibo indiano meriterebbe un capitolo a parte. Dico soltanto che in Gujarat, rispetto all’India del centro e del nord, è meno piccante e più gradevole ad un palato italiano. Le verdure sono tutte molto buone, la carne è assente o quasi al contrario del riso, sempre presente, così come il pane – roti, chapati, paratha o naan che sia –, interessante il paneer, un formaggio fresco e dolce che viene servito in salse varie sempre a base vegetale. Da provare sicuramente e con fiducia il chicken tandoori o afgani quando lo trovate, il biryani di riso e verdure varie e l’onnipresente thali a base di riso, verdure in salse varie e yogurt. I dolci sono generalmente buoni, ma molto dolci e poi per fortuna c’è la frutta, fresca o secca che sia, tutta consigliabile, è il vero salvavita in molte occasioni. Per gli appassionati, ovunque si può trovare lo street food: samosa, pakora ecc., è buono, vario e fritto bene – difficile da credere guardando l’olio, ma è così – e per finire non si possono dimenticare il chai ed il lassi, le due bevande nazionali.
03 gennaio
Visita al centro storico di Ahmedabad attraverso l’Heritage Walk che parte proprio dallo Swaminarayan Temple. E’ un’interessante passeggiata lungo le strette strade della parte più vecchia della città, abbiamo una guida in inglese che ci racconta dei personaggi e dei luoghi importanti. Questa modalità di visita ci permette di vivere la quotidianità della parte più vera della città, quell’India minore che riserva sempre esperienze inattese, come il signore che occupa un lato della strada per tendere i lunghi fili di cotone che poi colorerà con una polvere viola, la sarta che in attesa di clienti inganna l’attesa leggendo un romanzo, il cartello bilingue, appeso sulla porta del piccolo tempio, con l’avvertenza che le signore non possono entrare nel periodo del ciclo e la signora che fa tranquillamente toeletta sulla porta di casa incurante degli sguardi dei passanti. Il percorso continua con la visita alla Jama Masjid che conserva la sua primitiva bellezza nonostante i terremoti abbiano distrutto i minareti. Di notevole interesse la selva di colonne che sorregge la sala di preghiera, le originali soluzioni architettoniche per raccordare gli archi alle cupole e le grandi lettere dipinte in corrispondenza di ogni arco del cortile per formare il nome di Allah e del Profeta. Nella Siddi Sayd’s Mosque che visitiamo subito dopo si può ammirare la famosa finestra jali: si tratta di una lunetta realizzata con una lastra di marmo pazientemente traforata con complicati e sottili intagli che raffigurano gli imprevedibili intrecci dei rami dell’”Albero della vita”; non mancate di ammirare anche le altre altrettanto belle finestre che hanno permesso alla moschea di diventare Patrimonio dell’Umanità. In tarda mattinata accompagnamo all’aeroporto i partenti per l’estensione a Goa ed al ritorno ci fermiamo al Sabarmati Ashram. Posto in un bel tranquillo giardino sulla sponda dell’omonimo fiume è stato per molti anni la base operativa dell’organizzazione nonviolenta di Gandhi durante la lotta per l’indipendenza. E’ da qui che nel 1930 è partita quella che poi è diventata la famosa “Marcia del sale” nella quale Gandhi e 78 suoi compagni marciarono fino al Golfo di Cambay per poi estrarre il sale dall’acqua marina come protesta contro l’esosa tassa imposta dagli inglesi. In questa occasione il Mahatma vece il voto di non ritornare più all’Ashram fino a quando l’India non avesse ottenuto l’indipendenza, di fatto non ci tornò più. Pochi anni dopo la marcia, l’Ashram fu smantellato per essere destinato agli uffici del servizio di assistenza sociale. Furono conservate le spartane stanze in cui aveva abitato Gandhi e realizzato un museo, bello ed emotivamente coinvolgente, in cui le frasi e gli oggetti esposti evocano la consapevolezza della forza della nonviolenza e l’indomabile certezza di essere dalla parte del giusto che hanno animato i pensieri e le azioni del Mahatma. Nel pomeriggio, in attesa dell’ora della partenza, facciamo una passeggiata nei dintorni dell’albergo alla ricerca di un ultimo contatto con la gente. Camminiamo lungo la larga strada a doppia corsia tra banchetti di frutta e street food, piccoli negozi di mercanzie varie e molti indiani che ci guardano e sorridono. Alzando lo sguardo verso il cielo ormai avviato al tramonto rimaniamo sorpresi dai molti, piccoli e colorati aquiloni che volteggiano incerti nell’aria: è questa una giocosa abitudine di molti bambini indiani che dalle terrazze delle case fanno volare il loro piccolo pezzetto di carta, metafora colorata dei loro desideri. Poi la nostra curiosità è stuzzicata da un ingresso addobbato come un tunnel ricoperto di vaporoso tulle viola brillante; ovviamente entriamo per scoprire di che si tratta e veniamo accolti da una coppia che ci spiega e ci invita al matrimonio della loro figlia che si festeggerà poco più di un’ora dopo, mannaggia … che peccato non avere tempo! In uno slargo, appena al di la del guard-rail, incontriamo una specie di stalla all’aperto nella quale sono raccolte una ventina di mucche che stanno mangiando foraggio fresco portato dalle persone che poi mungendole usufruiranno del latte. Infatti, poco dopo si avvicina un signore con secchio e banchetto e si mette tranquillamente a mungere a non più di quattro, cinque metri dalle auto e dai tuk tuk che sfrecciano sull’asfalto. Aereo per Mumbai con orario improvvisamente spostato di più di due ore …. a saperlo rimanevamo alla festa di matrimonio. Ci consola il fatto che forse compariremo nell’album fotografico degli sposi, infatti ci siamo fermati a scambiare due parole con i “paggi” addetti alla carrozza che di li a poco avrebbe portato gli sposi e loro non hanno perso l’occasione per una bella foto con noi e per fotografarci con in testa i loro turbanti.
04 gennaio
Rientriamo consapevoli che questo viaggio ci ha fatto vivere emozioni che non avremmo mai immaginato nel momento in cui abbiamo deciso di farlo. Gli incontri con persone accoglienti, curiose e sorridenti, con la spiritualità che emana da una cultura della nonviolenza antichissima ma valida e viva ancora oggi, con le mani da stringere e con i sorrisi da ricambiare, rappresentano la vera ricchezza di questo viaggio.