Un far west diverso
I l cedro canadese è come il maiale: si usa tutto. Siamo abituati ad associare il Farwest con le immagini dei film che ci presentano un paesaggio arido intervallato da mesas a canyon, spesso quello della Monument valley. Per me è sempre stato quello dei film di John Ford: Ombre rosse, Il massacro di Fort Apache, She Wore a Yellow Ribbon, Rio Bravo e altri che sono nella storia del cinema e nell’immaginario collettivo. Potremmo dire il Farwest del sud. Non mi sarei mai immaginato che ci fosse un Farwest del nord, nei territori del Canada e nella parte alta degli USA, completamente diverso, verdissimo di foreste, pieno di laghi di montagna, e ghiacciai, in scenari stupendi. Monti, foreste e praterie a perdita d’occhio nell’Alberta e nella Columbia Britannica, una costa frastagliatissima, un mare punteggiato di isolette coperte d’alberi, un’isola costiera lunga 450 Km e più grande della Sicilia del 25%. Quindi quello che lo esplora è un grande viaggio di natura, la prima parte tra i laghi spettacolari e le creste delle montagne rocciose. Più vegetale la seconda parte, sull’isola di Vancouver. Impossibile vedere le cose senza fare trekking, senza salire sopra i vari laghi. Sempre su sentieri buoni, senza difficoltà, più o meno impegnativi come dislivello, ma da farsi ogni giorno nella prima parte del viaggio, sulle Montagne rocciose. Certamente per vedere bisogna camminare, ma ci sono percorsi adatti all’allenamento e la resistenza di ciascuno (e ci si può sempre fermare a metà salita, magari vicino ad una bella cascata!). Mentre preparavo il viaggio ho scorso programmi di altre agenzie, per cogliere spunti. Mi ha colpito chi proponeva il percorso in 15 giorni (contro i 23 del nostro viaggio) e dove la perla, in negativo, era l’arrivo a Banff, paesino di montagna molto turistico, base per tutte le escursioni nei dintorni, dove noi ci siamo fermati 6 giorni (e la vista del paese è stata di 2 ore a caccia di gelati e dolcetti, il resto sempre per monti e laghi a scoprire paesaggi e luoghi fantastici). Il programma proposto da costoro prevedeva, all’arrivo a Banff, di sistemarsi in albergo, cui sarebbe seguita una visita allo storico Fairmont Banff Springs hotel (certo, patrimonio Unesco, e vecchio di oltre 130 anni), ed infine pomeriggio a disposizione (NB: si noti che, tranne un paio, nessuna escursione è raggiungibile a piedi o con mezzi pubblici! E sicuramente richiede più di mezza giornata…). Il che andrebbe anche bene, se questa non fosse stata l’unica notte prevista a Banff e la mattina successiva si prevedeva di ripartire lungo la strada per fare, sia pure tra paesaggi di vette e ghiacciai, più di 300 Km! Ma procediamo con ordine: partiamo dall’Italia alla rinfusa con 3 voli diversi. Da Roma il volo Air Canada è subito in ritardo, cosa che comporta la perdita della coincidenza stretta a Toronto. Fortunatamente gli aerei in Canada partono come i bus da noi, quindi siamo automaticamente riprotetti dalla compagnia sul volo successivo, già previsto per quanti tra noi erano in partenza da Venezia. Quindi ancora meglio, viaggeremo insieme! Occorre solo ritirare la nuova carta d’imbarco già pronta al desk transfer. Controllo passaporti minimale e velocissimo. All’arrivo a Calgary facciamo un po’ di coda al noleggio auto, dove prendiamo l’extra CDW, la franchigia se no è di 900 C$... Non faremo danni, ma non si sa mai. L’hotel fortunatamente è vicino, ma è tardissimo, quindi tutti i ristoranti sono chiusi. Il mattino dopo siamo assonnati e lenti, e il cielo è cupo. Ogni tanto pioviggina. Perdiamo tempo per andare a fare colazione, visitare i giardini pensili e tentare il museo. Le difficoltà di parcheggio ci fanno rinunciare.
E allora lunga corsa per… quello che nessuno si aspetta in Canada! Un meraviglioso, ricchissimo museo di dinosauri, con più di 40 scheletri (praticamente perfetti) solo in una delle 14 grandi sale… Ovviamente non mancano i Thirannosaurus Rex, ma la cosa che mi conquisterà sarà l’incredibile sala della fauna della Burgess Shale, che si trova a cavallo tra lo Yoho National Park e il Kootenay NP. Famosa per lo straordinario stato di conservazione dei tessuti molli di fauna marina, vecchia di 508 milioni di anni, molto varia e difficilmente collocabile nei taxa odierni, talmente fuori dall’ordinario che solo nel 1962, riesaminando i reperti raccolti per 15 anni a partire dal 1909, si riuscì a capirne l’importanza. Le forme fossili che appaiono sono da fantascienza, non sembrano organismi terrestri, talmente insolite sono le loro forme. Una scoperta che lascia il segno, dove la realtà supera la fantasia. Percorriamo strade prima importanti e poi quasi di campagna, attraverso fattorie di prati verdi a perdita d’occhio o colorati, a seconda delle coltivazioni. All’ultima svolta, 3km prima di arrivare al museo, comincia la coda e le auto in senso inverso ci consigliano di tornare indietro, perché i parcheggi sono pieni. Insistiamo e troviamo senza troppo penare, oltre il museo, su uno spiazzo sterrato. La coda in biglietteria è eterna, poi, quando arrivo alle casse, scopro che avremmo potuto evitarla, andando direttamente al bancone successivo, che fa assistenza gruppi ed uno sconto sostanzioso. Museo bello e enorme, qualcuno si perde, ma riesce in carne e non solo ossa. Poi corsa senza storia per Banff. È tardi, e temo di non poter acquistare oggi i pass per i parchi (le multe le fanno, ho visto io su altre auto!). Fortunatamente la biglietteria del parco è come un casello sulla highway, aperto in continuo. Abbiamo fatto in tempo a passare dal supermercato, quindi oggi cena improvvisata in ostello.
Sulle montagne rocciose
Il programma di oggi prevede una bella passeggiata ai laghi Tower e Rockbound, su due livelli diversi circondati da una cresta rocciosa. Il meteo aiuta, con un bel cielo azzurro con un po’ di nuvoline fotogeniche. Le rocce che si specchiano nei laghi sono anch’esse molto fotogeniche. Cominciamo a vedere i paesaggi delle montagne rocciose e a goderne la vegetazione. In questa prima gita scopro che non solo ho selezionato un gruppo trek, molto veloce, ma che forse ho anche esagerato. Qualcuno decide infatti di salire oltre il lago fino alla vetta (aggiungendo altri 900 mt di dislivello ai 700mt già fatti, con vari km e qualche ora in più). Di conseguenza lasciamo loro un’auto e ci organizziamo con le restanti per andare a vedere l’eccezionale Marble canyon e le Paints pots nel vicino Kootenay NP. Il primo è una fenditura profonda di un ripido torrente, con passerelle che consentono di seguirne il corso fino alla parte dove il fiume si allarga, e di coglierne scorci suggestivi grazie a molteplici ponticelli che lo attraversano. L’area è bruciata pochi anni prima, ma ovunque già sono rispuntati, verdissimi, alberi già più alti di un essere umano. Scopro così che per le conifere gli incendi hanno anche un risvolto positivo, perché il calore fa schiudere le pigne e facilita la ricrescita del bosco. Il secondo prevede una passeggiata attraverso radure e boschetti verso aree dove l’acqua, portandosi dietro un po’ della terra colorata che attraversa, genera un gioco di colori, particolarmente interessante nelle grandi pozze nella parte alta del ruscello. Oggi la zona resta solo un’attrazione turistica, ma in passato era luogo di cerimonie grazie alle caratteristiche uniche delle terre e delle acque. Entrambe passeggiatine, piccole chicche defatiganti dopo la camminata principale, ma ad alto impatto fotografico! L’indomani partiamo presto perché è necessario, in questo periodo di alta stagione e quindi di grande affollamento, arrivare prima che Il parcheggio vicino all’inizio dell’escursione al Johnston Canyon venga chiuso. Arriviamo verso le 7:45 al parcheggio, ancora vuoto (poi sarà pieno anche l’altro vicino). Quindi prima parte del percorso senza sgomitare. Il sentiero è attrezzatissimo, lungo un canyon, intervallato da belle cascate con una natura rigogliosa. I più atletici salgono oltre sino alle Inkpots, pozze in cui risorgive creano circoli di color nero sulle sabbie marroni del fondo, come anelli d’inchiostro caduti in acqua, da cui il nome. A me personalmente era piaciuto di più il Marble Canyon, ma le inkpots sono carine. Visto che questa escursione ha impegnato solo la mattina, al ritorno a Banff, facciamo il sentiero degli hoodoos, carino, che parte subito dietro l’ostello. Arriviamo alla fine del trek già in centro e quindi non torniamo a prendere le auto, ma andiamo al lago Minnewanka coi bus pubblici (grazie al bus pass gratuito ottenuto in ostello). Il gruppo della settimana prima qui ha visto gli orsi (due madri con 3 cuccioli), e mi ha mandato le foto per segnalarmi la possibilità. Noi nulla, ma la passeggiata è piacevolissima di paesaggi, con scorci sul lago e sulle isoline boscose che vi sono in mezzo. Oggi in fatto di natura, non ci siamo proprio fatti mancare nulla! Il giorno dopo altro giro imperdibile, un po’ più impegnativo. Il programma è di andare dal Lake Louise alla Plain of 6 Glaciers, e ritornare per i laghi Agnes e Mirror. Anche oggi partiamo presto per parcheggiare a Lake Louise e non all’overflow parking 5 km prima del paese da cui saremmo costretti a muoverci su navette strapiene, anche se forse gratuite. Vedremo poi code di oltre 100 metri su 4-5 file per prendere i bus del ritorno. Arriviamo alle 7:45 mentre si riempiono gli ultimi posti. Passeggiata lungo il lago bella, qualcuno meno allenato non sale al punto panoramico sui ghiacciai (non granché, molto neri di polvere e in ritiro). Poi ai laghi. Il Mirror è quasi circolare, in una cornice di rocce a strapiombo e alberi, molto bello. Anche qui 5 ci lasciano per la cima. Torneranno ore dopo, ma felici. Nel frattempo accertiamo che per parcheggiare a Lake Moraine, nostra meta di domani, occorre arrivare prima delle 6.
E quindi… levataccia! Ma arriviamo in tempo, alle 5:45, ci saranno ancora 30 posti con un flusso di veicoli continuo. Vedremo poi che auto parcheggiate in divieto sulla strada di accesso saranno trainate via. Non oso pensare ai problemi che avranno i proprietari per fare i 17 Km sino in paese… Viste le difficoltà di parcheggio e la voglia di fare una traversata attraverso la Paradise valley fino a Sentinel pass scendendo poi al Moraine lake (o viceversa) ci dividiamo in 2 gruppi, con dislivello da affrontare l e g g e r m e n t e diverso. L’idea è quella di scambiarsi le chiavi durante il percorso. In due torniamo indietro a Paradise creek per fare il percorso più lungo e impegnativo, gli altri, stranamente la corta (ma poi 2 andranno in cima, salita anche complessa alpinisticamente). La gita da Paradise valley è bella e con salita graduale, prima nel bosco poi quasi in cresta. Dall’altra parte è molto più ripida. Tuttavia il tratto terminale da Paradise creek è su massi, con sentiero poco visibile, tra frane che si staccano dalla cresta di fronte e sassi che si smuovono e costringono a camminare a 4 zampe. Non per dilettanti. Ci ritroviamo al passo e suggerisco di tornare tutti verso Lake Moraine, per non rischiare. Il paesaggio al passo, di pinnacoli di arenaria, con la valle verde di alberi sullo sfondo e le creste di fronte, è spettacolare. Il giorno dopo ci dividiamo di nuovo. Io vorrei fare Lake O’Hara, ma per arrivare alla base del sentiero occorre superare una sterrata di 11 km con 400 mt di dislivello. Perché c’è un autobus che fa il trasporto, ma solo per gli ospiti di alberghi e campeggio e per i prenotati. Prenotazione possibile però solo di persona e sul posto, a costo molto alto, senza speranza già mesi prima. Quindi a meno di colpi di fortuna incredibili, occorre farla a piedi. La cosa non invoglia nessuno, quindi tutti tranne me andranno al Glacier NP, che è oltre sulla strada. Un’auto parte un po’ prima e mi lascia all’imbocco della strada per Lake O’Hara. In 2h15 di camminata arrivo al lago. Giro sul posto spettacolare, il più bello tra quelli fatti nel viaggio. Conviene salire con l’Opabin trail east e scendere con il west per le viste migliori. Dall’alto la vista sul lago è imperdibile, con lingue di terra piene di alberi alti di Thuja, che disegnano forme tra gli specchi d’acqua, una delle quali sembra l’Italia vista dal satellite… Il ritorno potrebbe essere col bus delle 14,30 (arrivo oltre 30’ prima), ma sono il primo degli esclusi (per la partenza successiva, due ore dopo, metteranno invece 2 bus). Per non rischiare di far aspettare chi mi deve venire a prendere torno a piedi (in 1h45) guadagnando oltre 40’ sul bus successivo. Ma aspetterò a lungo, perché in andata al Glacier erano stati rallentati da intoppi e incidenti stradali. Con chi torna a prendermi vediamo l’Emerald lake. Purtroppo oggi c’è foschia all’orizzonte, che vela le cime. È l’inizio del moltiplicarsi degli incendi che diventeranno in pochi giorni centinaia, forzando l’evacuazione di interi villaggi. Sempre più frequenti negli ultimi anni, con l’innalzamento delle temperature medie e l’aumento della siccità estiva. E contro i quali il Canada, in quest’area a bassa intensità di popolazione, non è preparato: si pensi che per una zona con forse 50-60 incendi in corso (600 in tutta la regione contemporaneamente!) c’erano 120 pompieri, con circa 20 mezzi pesanti e 1 velivolo di supporto aereo… E arriviamo finalmente ad una giornata (quasi) riposante. Oggi infatti si percorrerà l’Icefield parkway da Banff a Jasper, 325 Km di cime, laghetti, ghiacciai a bordo strada, alcuni enormi. Il cielo è un po’ velato, e con un po’ di stanchezza accumulata, cominciamo a saltare qualche cascata… Visto che per l’indomani si prevede pioggia, anticipiamo la Valley of 5 lakes, dove pranziamo al sacco. Bell’insieme di laghetti in mezzo ai boschi. E siamo arrivati all’ultimo giorno nelle Montagne rocciose, in cui ci sono in programma la passeggiata lungo il Maligne Canyon e la vista del Maligne lake. Il cui nome deriva dal fatto che un devoto gesuita belga, essendo cascato da cavallo nell’attraversare il torrente, si lasciò scappare un’imprecazione che attribuiva al diavolo il luogo… come se non bastasse per i poveri luoghi, qualche tempo dopo un ispettore delle ferrovie, essendo arrivato al lago dopo una camminata faticosissima, lo definì il lago dei piedi dolenti… Cielo grigio, come previsto. Pioverà poi un po’, così come l’indomani. Canyon carino (anche qui qualcuno allunga 5 km), lago così così (il cielo non aiuta). Poi partenza per anticipare chilometri e ridurre il tappone dell’indomani. La sera è previsto di dormire in un albergo a mezza via, dove non si era mai fermato nessun gruppo prima di noi. L’hotel a McBride è però una piacevole sorpresa, molte parti in legno, sembra quasi un vecchio saloon del west, ed è l’unico luogo di ritrovo per la vita notturna del paese (cioè di 5-6 persone…). Anche la birra alla spina è un po’ meglio della media delle molli birre canadesi. Esploro preliminarmente i soli 2 ristoranti aperti la sera. Ma la scelta è felice. Il giorno dopo attraversiamo tutte le montagne per arrivare a Stewart, ai confini con lo stato dell’Alaska. Il paese ha una via principale di casette antiche in legno, con grandi insegne sulla facciata che ricopre gli spioventi del tetto. Siamo in un alberghino carinissimo, che potremmo definire diffuso, di casette storiche (tra cui il vecchio bordello) ma con stanze accoglienti, una diversa dall’altra. Dormiremo sonni tranquilli, visto che il luogo è pattugliato, come avvisa un vecchio cartello arrugginito, da una pattuglia di oche d’attacco. L’attrattiva di Stewart è il Fish river creek, dove si possono vedere gli orsi che pescano i salmoni nelle acque basse. Ovviamente solo col fresco, la mattina presto prima delle 10 o la sera dopo le 17. Arriviamo prima delle 6, passato l’inesistente posto di confine, e dobbiamo aspettare in auto per l’apertura: in teoria gli orsi girano al parcheggio. Ma gli ultimi avvistamenti, tutti ben registrati all’ingresso, sono di 5 giorni prima, e a noi tocca, in 4 ore di attesa, solo un lupo, per 10 minuti. Che arriva, non cura di uno sguardo i pesci morti dopo l’accoppiamento, incastrati tra le rocce e già un po’ sfatti, corre un po’, poi muso in acqua con uno scatto improvviso, e via con un bel pesce di qualche chilo, a mangiarselo con calma sulla riva. Poi torna al ruscello a lavarsi le zampe, e trotterella via per tornare in famiglia… Visto che non si può fare altro che aspettare, ne approfitto per fare foto alla bella vegetazione, con lunghissimi filamenti penduli dagli alberi. Poi bella corsa su sterrato per lo splendido Salmon glacier, da un pezzo di nuovo in Canada, senza nessun posto di confine. Lente invece le procedure di controllo passaporti (solo dei canadesi) per tornare a Stewart. Giriamo un po’ in paese, poi torniamo in serata al Fish creek, ma compare solo un visone. Oltre alle centinaia di salmoni in agitato accoppiamento o riversi sulle rocce, ovviamente. Mattina di nuovo al Fish creek, senza successo. Colazione alla caffetteria dell’hotel, ricca di dolci. Corsa con bei paesaggi per Prince Rupert, sulla costa, da cui ci imbarcheremo verso l’isola di Vancouver.
Corvo, Uccello tuono, Grizzly e Orso marino: le terre delle prime nazioni
Prince Rupert è in terra Tsimshan, una delle “prime nazioni”, come si chiamano in Canada i gruppi di nativi. Trovo che non usare il termine “indiani” o “pellerossa”, tutte costruzioni culturali degli invasori europei, sia segno di civiltà. Purtroppo la storia delle relazioni tra governo canadese e le tribù non è bella. I rapporti sono stati tesi sino a pochissimi anni fa. Il voto ai nativi è stato riconosciuto solo nel 1960 (40 anni dopo che negli USA), e prima non venivano nemmeno considerati cittadini dello stato. Spesso i trattati, comunque già imposti, sono stati stracciati dai bianchi per consentire nuovi insediamenti di coloni sui terreni agricoli e per l’estrazione mineraria. La svolta avvenne nel 1973, quando la corte suprema canadese giudicò a favore delle prime nazioni sulla persistente validità dei trattati, che il governo voleva abolire, con conseguenti cause per indennizzi stratosferici. Ma solo dopo il 2000 si sono moltiplicati i nuovi accordi che rispettano i diritti delle “prime nazioni”, quantomeno riconoscendo loro equi indennizzi per l’utilizzo delle risorse (ad es. idroelettriche), volti anche a migliorare la condizione economica dei nativi. I nomi delle “prime nazioni” della Columbia Britannica, Tlingit, Haida, Kwakiutl, Salish, ecc., a me suscitano molti ricordi, sulla base delle passioni dell’infanzia. Sono gli “indiani” caratterizzati dai grandi totem che raffigurano l’uccello tuono ad ali spiegate, delle grandi maschere (che quelli delle pianure e del sud non conoscono) a campiture nette di colore. Gli “indiani” del freddo, vestiti di pelli che appaiono pesanti nelle vecchie foto d’epoca. Con tutti gli elementi per scatenare la fantasia di un ragazzo… Li ho poi ritrovati mentre studiavo antropologia all’università. Sono stati infatti oggetto di molti ed approfonditi studi, in particolare sulle cerimonie Potlach, in cui persone e famiglie importanti, che hanno accumulato molte risorse, le “disperdono” invitando ad una grande festa di molti giorni la tribù, nutrendola, coprendo di regali gli invitati e distruggendo ritualmente i beni preziosi accumulati, come le grandi placche di metallo ornamentali. Il Potlatch è un esempio di economia del dono, in cui gli ospitanti mostrano la loro ricchezza e la loro importanza attraverso la distribuzione dei loro possessi, spingendo così i partecipanti a contraccambiare quando terranno, pena la perdita del rispetto della tribù, il loro Potlatch. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, infatti, nel Potlatch l’essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli (sostanzialmente ridistribuirli a favore della comunità). La logica dell’economia di mercato è quindi completamente invertita. Per questo missionari e governanti hanno a lungo condannato e, per molti anni, vietato il Potlach. Ma la tradizione è rimasta e continua nelle comunità ancora oggi, per la sua funzione di consolidamento dei legami sociali, anche se per molti, dopo la rottura dei trattati e l’espropriazione delle terre, la posizione economica spesso non è tale da generare i surplus di un tempo. La cultura degli “indiani” della Columbia Britannica ha prodotto molti oggetti, in gran parte a partire dall’albero di cedro. Il nome è improprio, accumunando due cipressacee, la Thuja plicata, chiamata Cedro rosso occidentale o Cedro rosso del Pacifico, o cedro gigante, e il Cupressus nootkatensis, o Cedro giallo. La Thuja plicata è un grande albero che raggiunge i 65-70 m di altezza e 3-4 m di diametro del tronco. Ha una vita molto lunga, con individui che possono superare il migliaio di anni. I rami sono appiattiti e coperti di foglie che hanno forma di scaglie. Il Cupressus nootkatensis arriva a 40 metri di altezza, con rami penduli e lunghe foglie a scaglie anche di 3-5 metri.
Per i nativi il cedro è come il maiale: si usa tutto. Per fare di tutto. Significative a questo riguardo le leggende Salish sulla nascita del cedro rosso: un uomo generoso che aiutava sempre gli altri, donando coperte, abiti e cibo, viene ricompensato dal Grande spirito che farà sorgere l’albero dalla sua tomba, dicendo che sarà utile a tutti: le radici per i cesti, la corteccia per gli abiti, il legno per le case. Il cedro giallo, invece nasce quando Corvo (dio creatore e ingannatore burlone), scoperto che alcune giovani donne che essiccavano salmoni sulla riva non avevano paura di nulla se non dei gufi, ne fece il verso in modo da farle fuggire sulla montagna, dove si trasformarono appunto in cedri gialli, di cui è apprezzata dagli “indiani” la bellezza. Tradizionalmente per l’abbattimento dell’albero venivano usate asce di pietra e bruciature controllate tramite pietre roventi (e argilla bagnata per isolare le parti da non bruciare). Per la lavorazione del legno, invece, mazze di pietra e cunei di legno per fenderlo (e anche farne tavole). L’uso tradizionalmente controllato delle risorse vegetali portava gli “indiani” a praticare un foro alla base per accertarsi che lo stato delle parti interne dell’albero fosse adatto agli usi programmati. Se l’interno era “marcio” o inadatto, l’albero non veniva abbattuto.
Le tecniche erano così raffinate da consentire di ricavare tavole dall’albero ancora in piedi, o attraverso una serie di cunei piantati dall’alto verso il basso, aiutandosi magari con corde per staccarle dal tronco, o, volendo faticare meno, staccandola prima solo parzialmente, e inserendo poi tra tavola e tronco un cuneo lasciato in situ sinché vento e clima non completassero l’operazione. Altrettanto raffinate le tecniche per la realizzazione delle canoe, dove dopo la sgrossatura della forma esterna dell’imbarcazione dal tronco, l’interno veniva rimosso arrivando a definire spessori uniformi (che bilanciano resistenza e peso) su tutte le superfici grazie a piccoli fori in cui venivano inseriti pioli di misura fissa di cedro giallo, che servivano come riferimenti per rimuovere il legno all’interno.
Poi, attraverso acqua bollente all’interno e fuoco all’esterno, il legno dei fianchi veniva ammorbidito in misura sufficiente ad allargare i bordi della barca attraverso l’inserimento forzato di bastoni all’interno, in modo da assicurare la forma voluta che consentisse l’utilizzo anche in mare dell’imbarcazione. L’utilizzo più spettacolare dei cedri è però per la costruzione delle case plurifamiliari e cerimoniali, quindi grandi, ottenute attraverso pilastri e travi fatti di tronchi lasciati rotondi, enormi. Per sollevarli e metterli in posizione potevano servire da 80 a 300 persone, a seconda delle tecniche usate e delle dimensioni. Tetto e pareti laterali erano poi fatti con tavole fissate con legacci di rami flessibili di cedro. I pilastri interni principali erano intagliati a totem, con le figure araldiche della famiglia/tribù: corvo, grizzly, orso marino (mitico, non rappresentativo), rana, zanzara, orca, polpo, salmone, uccello tuono, mostro marino, aquila, ecc., in combinazioni varie. Disegni stilizzati degli stessi animali venivano eseguiti in facciata di solito in colori puri, soprattutto bianco, nero e rosso. Le realizzazioni forse più spettacolari sono però i grandi totem esterni, alti anche oltre 20 metri, spesso posizionati al centro della facciata in modo da ricavare la stretta porta d’ingresso alla base del tronco. Una delle realizzazioni più complesse utilizzando le tavole di cedro sono però scatole e cofani.
I 4 lati sono infatti realizzati con un’unica tavola, piegata agli angoli preventivamente scanalati all’interno, piegati a vapore e cuciti poi con la base. La realizzazione era così perfetta da poter utilizzare le scatole come pentole per la bollitura (riempiendole d’acqua e immergendovi pietre calde). Con la stessa tecnica realizzavano coppe, tamburi quadrati e altro. Scolpendo il legno invece facevano pagaie, zangole, coppe, culle per infanti, statuette ecc. E ovviamente maschere, sempre rappresentanti animali e divinità totemiche. Particolarmente interessanti le maschere di trasformazione, realizzate o con due sportelli decorati che si aprono a svelare una diversa figura, tramite un gioco di corde manipolate dal portatore, o attraverso musi sostituibili incastrabili sulla base della maschera, in modo da trasformare la rappresentazione da salmone a lupo ad aquila a corvo, ecc. Come si diceva, del cedro si usava tutto. La corteccia, scelta da alberi dritti e con pochi rami, veniva staccata a strisce facendo un’incisione in basso e poi staccandola dal tronco tirando dal basso verso l’alto. Per regolarne la lunghezza si effettuava una legatura in alto, che impediva che si staccasse oltre il voluto, danneggiando l’albero.
Ovviamente le strisce ricavate riguardavano una parte limitata della superficie della pianta. Con la corteccia si facevano scatole, sacchetti, e addirittura canoe di emergenza. Attraverso la sfibratura della corteccia, ottenuta per battitura dopo immersione in acqua per 12-15 giorni, si ottenevano fibre che potevano essere utilizzate, a seconda della finezza ottenuta, per fare corde e legacci, cestini con intreccio stretto o rado, gerle da trasporto, reti, cappelli, tappeti e stuoie, vele, decorazioni per costumi cerimoniali, e ovviamente vestiti e coperte. Queste ultime, nei casi più raffinati, potevano avere ordito di fibra di cedro e trama di lana di capra di montagna. I rametti secondari del cedro, lunghi, robusti, sottili e flessibili, venivano raccolti, quindi privati della corteccia tirandoli tra due tavole tenute strette dopo averli riscaldati alla fiamma, e quindi utilizzati per legature (ad esempio del bordo aperto delle scatole), o per nasse (grazie alla loro resistenza in acqua) o ancora per cestini. Le radici, che per essere utilizzabili devono essere dritte, venivano ricavate da luoghi con pochi sassi, o meglio ancora sabbiosi, dove anche la fatica per estrarle dal terreno era minore, sostanzialmente tirandole via dal terreno.
Si tratta anche qui delle radici secondarie, sottili, ad almeno 4 metri e mezzo dalla pianta. Trattate preliminarmente come i rami secondari, venivano poi suddivise (tenendone un capo in bocca, ad es.) in fibre più fini, ancora una volta per farne legacci, cestini, contenitori. Con tutto questo non sorprende sapere che all’albero veniva riconosciuta una sacralità cui erano connessi dei rituali, tra cui anche preghiere prima di abbatterlo. I cedri, quelli gialli in particolare, trovano il loro areale ottimale sulla costa brumosa della Columbia britannica, e quindi li abbiamo incontrati nella seconda parte del viaggio, da Prince Rupert. Abbiamo modo di apprezzarli particolarmente durante la traversata nell’Inside passage, 16 ore di navigazione tra la costa e le isole costiere, uno spettacolo! Le nebbie basse al mattino aggiungono fascino spettrale ai paesaggi, con le piccole isole che si inanellano una dietro l’altra. Poi nuvole, paesaggi interessanti ma, alla lunga, monotoni. Si legge, si mangia. Ottimo il buffet, anche se non economico. Arrivo alle 23,20 con 10’ di anticipo, di corsa in hotel a sistemarci. Il giorno dopo il gruppo si divide nuovamente in base ai rispettivi interessi. Quindi in 9 a vedere le balene (una ha dato forfait ieri sera, dopo esser stata male per un leggero sballottio dell’enorme ferry), 3 raggiungeranno con una lunga sterrata in mezzo ai boschi, in genere facile anche per vetture basse, il Cape Scott Provincial Park.
Attenzione che lungo la strada il gps impazzisce e manda per strade inesistenti o interrotte. Meglio attenersi alle, pur scarse, indicazioni dei cartelli stradali. Qui si può fare il st. Joseph Bay trail, carino di enormi lumache strane e stranamente colorate e che sbocca su una stupenda spiaggia molto soggetta alle maree e assolutamente nature. Luogo da sogno ma non da bagno. Bella anche la foresta lungo il sentiero per arrivarci. Chi è andato a vedere le balene vedrà anche orche, ed un enorme branco di delfini che salta attorno alla barca, accompagnandola a lungo. La giornata successiva prevede un’immersione nella cultura dei nativi, attraverso una gita ad un’isola piccola, Alert bay, cui si arriva in traghetto. L’insediamento degli “indiani” qui risale al 1870, convinti a trasferirsi dalla costa per lavorare nella vicina fabbrica, appena impiantata, di pesce salato. La comunità si sviluppò progressivamente fino al trasferimento dell’agente indiano e all’installazione di un sergente di polizia nel 1890, e ad ottenere la costruzione di un ospedale nel 1909. Dal 1946, con lo sviluppo nella regione di pesca e industria del legno, l’isola divenne il centro di approvvigionamento e di svago nei week end dell’intera area. La mattina mettiamo i bagagli in auto per liberare le stanze, poi a piedi al ferry. Che partirà con oltre 30’ di ritardo per svuotamento pozzi neri… Ritirano il biglietto all’andata, si risale al ritorno senza.
Paesino carino di casette, tanti totem e piccolo ma prezioso museo di maschere. Con una storia interessante, in quanto gli oggetti erano stati sequestrati e dispersi in vari musei di Canada, USA e UK nel 1922 a seguito di interventi più repressivi per la soppressione dei potlach (con minacce di pene da 2 a 6 mesi per chi partecipasse anche solo come spettatore). Con l’abolizione della legge negli anni ‘50, cominciarono le azioni per ottenerne la restituzione, coronata da successo quasi totale, anche se con sforzi durati dal 1975 al 2002. Qualcuno assiste ad uno spettacolo (in luglioagosto, dal giovedì al sabato) dei locali nella casa cerimoniale ancora usata per i potlach che presenta alcune scene tipiche, con canti, danze e maschere, appunto del potlach. È come sbirciare ciò che potrebbe essere, anche se qualcuno è troppo ragazzino per saper già danzare bene. Assistono anche locali in visita, comunque, molto coinvolti, e anche accompagnano i danzatori col canto.
Vediamo anche il cambio del muso sulle maschere, l’arrivo degli spiriti dall’esterno, vari costumi e varie maschere, interessante. Il giorno dopo abbiamo modo di apprezzare da vicino i cedri giganti nel breve ma interessante circuito di Cathedral grove nel MacMillan Provincial Park. Concluderemo la giornata con una comoda e piacevole passeggiata per i sentieri ben tenuti e panoramicamente interessanti del Wild Pacific Trail, attorno alla punta su cui sorge il paesino, carino e turistico, di Ucluelet. Con un po’ di foschia che sale dal mare. Camminiamo accompagnati da un suono ritmico, un tuuuuu intenso e strano. Scopriremo solo sulla punta, dove c’è un faro, che è emesso da una boa fischiante installata nel 1907 (o 1925? Le indicazioni locali differiscono). Il giorno dopo ci dividiamo ancora: in 10 sveglia comoda, negozietti e poi a Tofino per fare la gita in barca che consentirà di vedere gli orsi. Torneranno felici di averne visti 3, uno molto da vicino, a dar manate ai sassi sulla spiaggia per raccattarci gli animaletti sotto, durante la bassa marea. Per gli altri sveglia presto per l’altro tratto del Wild Pacific Trail, nella nebbia mattutina che resta sin oltre le 10. Poi al bel percorso su passerelle tra bella vegetazione del Nuu-chah-nulth trail. Al bog trail ci fermiamo ad osservare uno scoiattolo che prende una pigna, poi corre sotto i rami dello stesso pino a sgranocchiarla in sicurezza, per ripetere poi il tutto freneticamente. Antica e nuova capitale Salutiamo la natura e concludiamo il viaggio con la visita a due città, Victoria, ex capitale coloniale della provincia, con qualche bell’edificio antico, e Vancouver, moderno centro amministrativo, dal cuore di grattacieli. La corsa verso Victoria è lunga, e rallentata da lavori stradali, dove perdiamo quasi un’ora per fare 3-4 chilometri. Per fortuna l’hotel è proprio a fianco della via di penetrazione in città, anche se un po’ più lontano dal centro di quanto non mi aspettassi. Nelle due città ci dividiamo tra shopping (limitato) e musei (molto belli per la parte sui nativi). Victoria a me delude un po’, tra edifici vecchio coloniali (da colonia povera e piccola) e nuovi mostri. Andiamo e torniamo dal centro a piedi (circa 8 km andata e ritorno). Giusto per non perdere l’esercizio. Il trasferimento a Vancouver richiede un traghetto, per il quale non abbiamo la prenotazione. Partiamo comodamente dopo colazione, senza fretta. Sulla highway cartelli segnalano che il traghetto delle 11 è pieno al 31%, quindi siamo speranzosi.
La nave è effettivamente enorme, a 3 ponti auto, e vediamo uscire mezzi per almeno 20’. Ovviamente troviamo posto. A bordo compriamo i biglietti giornalieri per i trasporti pubblici di Vancouver. Sbarchiamo a sud, ma qualcuno vuole vedere il Lighthouse park a nord e decidiamo di andarci in auto. A passo d’uomo in città, con attese interminabili ai semafori, per un percorso tra boschi che non aggiunge nulla a quanto già visto, anzi. Il giorno dopo visitiamo invece comodamente il centro di Vancouver ed i suoi palazzi grazie alla eccellente e veloce rete di trasporti pubblici. La città è però purtroppo immersa nel fumo in sospensione degli incendi (che durante tutto il tratto sulla costa avevamo dimenticato), con cielo grigio e sole rosso, e appaiono velati già anche i palazzi del secondo isolato di fronte a noi…
Pare che anche la qualità dell’aria sconsigli lo sforzo… Quindi ne approfittiamo per esplorare le specialità culinarie della regione, tra cui anche il raccomandatissimo Bistrò 101 al Pacific Institute of Culinary Arts. Per chiudere in bellezza.