La faccia nascosta dell'Himalaya
Sembrerebbe che il Nepal del XXI secolo non abbia più segreti per il turismo d’avventura. Basta usare ChatGPT per trovare ogni genere d’informazione su molti itinerari: dai report dettagliati su difficoltà, tempi e dislivelli, alla puntuale documentazione fotografica. Quel che si guadagna in conoscenza allontana nondimeno l’ignoto e l’inaspettato, incognite che costituiscono il sale d’ogni impresa. Sono i sinonimi di Avventura, un marchio che sembra essersi sbiadito nell’epoca presente caratterizzata da un sovraccarico, quasi un ingorgo, informativo. Ma c’è chi ancora la cerca, l’Avventura, accettando in cambio un ragionevole rischio - magari senza confessarlo apertamente - che potrebbe sembrare pretenzioso. Noi l’abbiamo trovata in un viaggio esplorativo d’antan, a metà tra trek e spedizione alpinistica. Il circuito del Saribung conta scarsissime ripetizioni da quando è stato aperto nel 2006 e ancor meno relazioni. Il percorso si snoda in zone remote, lontano dai sentieri battuti, da ciò che è considerato facile. Sei giorni di tenda a pochi passi dal Tibet, senz’incontrare anima viva a parte aquile, yak e bharal, attraverso paesaggi desertici d’alta quota, all’ombra di montagne senza nome.
Il trek
La seconda metà di ottobre è la stagione ideale per camminare nelle alte valli del Nepal. Conclusa la stagione del monsone, i cieli tornano sereni mentre le temperature indugiano ancora per un po’ sui livelli primaverili. La finestra favorevole è tanto più stretta quanto più si va in alto: a novembre le minime in quota precipitano già sottozero. Il trek del Saribung prende il nome da uno dei passi glaciali più alti percorribili senza l’aiuto di particolari attrezzature o conoscenze alpinistiche. Resta comunque importante saper identificare e, possibilmente, prevenire eventuali sintomi legati al mal di montagna. Premesso questo, bastano un buon allenamento, resilienza, ottimi indumenti, un paio di ramponi e, volendo, dei bastoncini. L’itinerario unisce l’alto Mustang (ex regno nepalese al confine col Tibet) alla valle di Naar-Phu per concludersi a Manang di fronte alla catena degli Annapurna. Si può scegliere se partire da Lo Manthang, capoluogo del distretto, oppure un poco più a sud, da Charang, ex residenza reale. Si punta a est per superare i primi tre ripidi passi che portano a quello glaciale, il Saribung La. Da quest’ultimo si prosegue verso sud sino a Phu e poi a Naar per affacciarsi quindi dal Kang La sulla grande barriera degli Annapurna. Volendo, è possibile chiudere l’anello proseguendo verso ovest lungo la valle del Marsyangdi, da Manang al lago Tilicho. Superato il passo di Mesokanto, nei pressi del Tilicho, si può completare l’anello ritornando nella Kali Gandaki all’altezza di Jomsom. Il circuito descritto ha uno sviluppo di poco più di duecento chilometri, percorribili in un paio di settimane valicando cinque passi alti più di 5000 metri, senza contare il Saribung La alto 6042 metri. Il picco Saribung si trova in corrispondenza del passo: una facile cima di 6346 metri che è possibile salire in due ore direttamente dal colle. Lo sforzo aggiuntivo è ben ricompensato dai panorami mozzafiato sulla catena del Khumjungar Himal e sui 7000 al confine col Tibet come l’Himlung o il Nemjung Himal. Le regioni che si attraversano sono selvagge e disabitate, con scarse tracce di sentieri, lontane da comunità umane che non siano miseri ricoveri di pastori usati solo d’estate.
Il gruppo
Un itinerario impegnativo richiede una logistica complessa. Per motivi legati all’attraversamento di regioni di confine è necessario richiedere numerosi permessi. Inoltre, dato il terreno glaciale, non è possibile impiegare animali da soma se non durante le primissime tappe. È obbligatorio assumere una guida nonché diversi portatori adeguatamente equipaggiati. Tutto questo incide sui costi. Ma la vera difficoltà nel coinvolgere altri trekker in una prima avventurosa senza garanzie di successo è stata l’incognita di una traversata che richiede buone condizioni meteo e un terreno praticabile. Limiti in gran parte ignoti a priori, pur con tutte le assicurazioni dovute alla buona stagione e all’esperienza. Il desiderio di vivere un trekking avventuroso ha prevalso e, sia pur con difficoltà, alla fine ci siamo trovati in quattro. Pochi ma buoni, se posso permettermi. Oltre a me c’era Davide, fortissimo camminatore nonché appassionato di viaggi in quota, Matteo, con all’attivo una ventina di trekking in Nepal, e Chiara, free climber prestata quasi per caso all’alpinismo d’alta quota. Anche se per ragioni anagrafiche rientravamo tutti nella categoria dei diversamente giovani, l’esperienza, la motivazione e l’allenamento ci hanno permesso senza vergogna di pensarci ancora come “non obsoleti”.
L’avventura
Metà ottobre del secondo anno post-pandemia. Si ritorna in Nepal, in un mondo cambiato. Le montagne sono sempre uguali: è il pubblico a essere radicalmente nuovo. Troviamo Lo Manthang quasi deserta rispetto al passato: i 500 dollari del permesso speciale per l’ingresso in Mustang costituiscono un’efficace barriera alla ripresa del turismo, tant’è che c’è già chi parla di dimezzarlo nel 2024. I monasteri millenari all’interno della cinta di mura di Lo Manthang, in particolare quello di Jampa, mostrano ancora i severi danni inferti dal recente terremoto. Purtroppo alcune pareti sono crollate e lì restano ancora a ostruire i vicoli che però di notte risplendono, illuminati da moderni lampioni a led. Spiace constatare che i restauri degli antichi thanka siano effettuati in modo approssimativo, ricalcando con vernice fresca i pigmenti naturali degli antichi affreschi. I fondi per il restauro sono probabilmente dirottati su altre priorità: molti denari vanno nella costruzione di nuovi gompa in cemento armato con annessi edifici di servizio e scuole che ospitano tantissimi bambini aspiranti monaci, tutti maschi. Temo, purtroppo, che per garantire un’adeguata istruzione anche alle bambine occorrerà attendere il prossimo giro della Ruota del Dharma. Nel frattempo, tanti lodge cresciuti di recente come funghi intorno alla città vecchia (appena una decina d’anni fa, Lo non era collegata a Jomsom neppure da una strada) faticano a riprendersi dalla crisi. La notevole eccezione è costituita dai pochissimi alberghi di lusso, affollati nonostante i prezzi da cinque stelle: non resisto alla tentazione di bermi un espresso al Royal Mustang (a Lo Manthang sono sorti diversi coffee bar, forniti di macchine per espresso commerciali con buone miscele di caffè nepalese). Il bellissimo resort offre un’ampia sala comune riscaldata con caminetti a legna (tutta d’importazione, stante l’assenza di alberi nel Mustang) e la maggior parte degli ospiti parlano l’inglese o il russo. Mentre il numero di trekker sembra essere sotto la media, gruppi organizzati di motociclisti nepalesi e russi risalgono rombando la valle sui loro cavalli d’acciaio cromato sino alle Jhong Caves e al gompa di Nichung, quasi al confine con l’inaccessibile Tibet. Lasciamo senza rimpianti la pur bella Lo, diretti a Yara Gaon su di un aereo sentiero che corre lungo la sponda sinistra orografica della Kali Gandaki. Nel tranquillo villaggio si trovano gli ultimi lodge disponibili prima di affrontare le desolate alte valli a est, disabitate dall’uomo ma occupate da marmotte, conigli selvatici, pecore blu, yak e dai loro predatori. Superiamo tre impegnativi passi in altrettanti giorni. Purtroppo, il giorno successivo al superamento del primo, Chiara non si sente bene. Si tratta probabilmente solo di una forma lieve di mal di montagna, che tuttavia le impedisce di riposare. Seppure a malincuore, deve rinunciare e scendere a valle in compagnia di un portatore. Proseguire oltre le baracche di Ghuma Thanti, dove comunque arriva una pista abbandonata, sarebbe stato troppo pericoloso a causa delle successive difficoltà di evacuazione di chi non è più in grado di procedere con le proprie forze: stante l’orografia e l’alta quota, l’elicottero non sempre è un’opzione. Ripide salite e vertiginose discese ci fanno attraversare altre due valli (con altrettanti passi) per arrivare ai laghetti di Damodar Kunda, poco più che stagni ma sacri agl’indù e meta dei pellegrini devoti a Krishna e Vishnu. Il nome è composto in sanscrito da Kunda (laghetto o pozza) e Damodar, che significa colui che è legato da lacci d’amore e si riferisce alla leggenda che vuole il Signore Krishna legato con una corda (daama) alla madre Yasoda per sottrarlo al male. Uno degli affluenti himalayani del Gange è il Gandaki, terzo fiume del Nepal, il cui principale tributario è la Kali Gandaki, fiumiciattolo che attraversa tutto il Mustang e le cui sorgenti si possono far risalire sino ai tre laghetti di Damodar. Nell’alveo della Kali Gandaki e nei pressi di questi ultimi si trovano delle ammoniti fossili (saligrama) usate nell’induismo come simboli iconici del dio Vishnu. Tra i fedeli si mantiene la credenza che un bagno nei laghetti sacri di Damodar, a una quota di 4900 metri circa, mondi da tutti i peccati della vita passata e dell’attuale. Per questo motivo pellegrini e sadhu si sottopongono a sacrifici incredibili per giungere sin qui, affrontando passi e sentieri con grandissima determinazione ma scarsa preparazione, spesso vestiti in modo inadeguato. Alcuni si perdono, colti dal maltempo, e soccombono agli stenti come purtroppo abbiamo constatato. A poca distanza oltre Damodar Kunda la valle è chiusa dalla testata del Khumjungar, una lunga e ampia lingua di ghiaccio che sale per quasi mille metri dal suo fronte al bacino di accumulo, posto in un circo glaciale alto oltre seimila metri. Non vi sono tracce di passaggio, per cui procediamo a vista sulla sinistra orografica, salendo la ripida morena di sfasciumi e rocce in equilibrio instabile. Il pendio si fa più dolce avvicinandosi all’ampio circo contornato da picchi, alcuni dei quali inviolati, che alimentano ghiacciai minori separati da alti colli tutti sopra i 6000. È il Khumjugar Range, regione sistematicamente esplorata dalla guida alpina francese Paulo Grobel che ha contribuito alla cartografia dell’area e alla sua toponomastica. Mentre risaliamo il ghiacciaio spuntano sulla sinistra tre alti colli. Mi chiedo quale dei tre sia il passo Saribung che dovremo superare domani. Propendo per il primo, il cui pendio pare salire più dolcemente. La nostra guida sherpa, che è stata l’ultima volta da queste parti anni fa, non si ricorda bene. Occorrerà andare in esplorazione. Attraversiamo un po’ a caso il ghiacciaio, scantonando tra le alte torri e le vele di ghiaccio per portarci sul suo lato destro orografico, dove montiamo il campo su di un abbozzo di morena pietrosa quasi pianeggiante, a quota 5740. Si avvicina il tramonto ma il campo è già immerso nell’ombra della parete del Kumlung Peak, che svetta sopra le nostre teste per ulteriori 600 metri. Più lontano, le cime del Chhib Himal, 6650 m, e del Khumjungar Himal, 6759 m, separate tra loro dal Belvedere di Alfred, 6226 m, si tingono delle molteplici sfumature rosate del tramonto. Il mattino successivo proseguiamo per guadagnare tempo lungo la morena ancora in ombra. Sulle mappe e dall’ispezione visiva sembra che il Saribung La sia il secondo colle, non il primo, chiamato nella mappa passo De Hults. Constateremo in seguito, da un punto d’osservazione sul picco Saribung, che l’altro versante del colle De Hults strapiomba in una seraccata più ripida ancora dell’Ice Fall dell’Everest! La morena destra dove abbiamo posto il campo alto termina all’improvviso contro lo spigolo ovest del Sonam Himal a quota 5800. Da qui iniziamo l’ascesa in diagonale del pendio, salendo in fila indiana in direzione del Saribung La, ora ben visibile. Dobbiamo battere traccia perché troviamo il ghiaccio vivo ricoperto da una trentina di centimetri di neve fresca, probabilmente caduta solo la settimana precedente durante l’ultima perturbazione. Appare chiaro come questa neve non si scioglierà sino alla prossima primavera. Se ne fosse caduta di più, avremmo avuto parecchi problemi a raggiungere il passo. Per nostra fortuna il tempo è rimasto stabile per diversi giorni e così rimarrà ancora per un paio, se le previsioni ci azzeccano. Aggiriamo un larghissimo ed evidente crepaccio proprio sotto al passo, ma quel che ci mette più ansia sono i piccoli crepi, nascosti sotto al manto di neve ma non per questo meno insidiosi. Fortunatamente non ne troviamo e in tre ore il serpentone, costituito dai nostri nove portatori più il loro capo Lapkha che chiude con in testa la guida sherpa e noi subito dietro, giunge al passo. L’altimetro segna quota 6040. I portatori e la guida iniziano subito a scendere il ghiacciaio sull’altro versante del colle: per loro la fatica è stata tanta e il cammino ancora lungo e disagevole. Con mia sorpresa, Lakhpa e lo sherpa non indugiano con noi al passo: ci lasciano con la scusa che devono scendere subito per sfruttare la luce del giorno e trovare la strada. Non tutti i portatori sono ben equipaggiati, fa freddo e non ce la sentiamo di trattenere nessuno. Restiamo solo noi tre alpinisti perché è nostra intenzione tentare la salita del picco Saribung, facile cucuzzolo di ghiaccio che si erge per trecento metri sul passo. La neve alta e crostosa non agevola la salita: affondiamo quasi a ogni passo e dobbiamo alternarci per batter traccia con fatica, procedendo a zig-zag. In compenso non ci sono grandi pericoli: i rarissimi crepacci sono evidenti. Poco prima delle due del pomeriggio giungiamo infine in vetta, a quota 6346 m, punto più alto toccato nel viaggio. Non è una montagna elevatissima, ma la soddisfazione è data dal fatto che siamo saliti senza aiuto né guida, trovandoci la via da soli. Inoltre siamo in perfetta solitudine: i portatori hanno probabilmente già raggiunto il campo base Bhrikuti Shail, distante una decina di chilometri. Eccettuati loro, sappiamo non esserci altri esseri umani nel raggio di almeno trenta km. Il senso d’isolamento e la selvaggia bellezza del posto mettono un po’ i brividi e spingono a fare in fretta, ma il meteo è ottimo e il morale alto. Iniziamo la lunga e complicata discesa avviandoci sull’altro versante del passo, diretti a sud, mantenendoci sempre sul bordo del ghiacciaio. Tranne che nel primo ripido tratto innevato, non troviamo tracce evidenti di passaggio per cui procediamo a vista, tenendoci il più possibile sulla morena di sinistra, attraversando a volte conoidi di detriti che stanno sotto le pareti verticali. Il problema è che di morene ce ne sono diverse e di tanto in tanto qualche ghiacciaio laterale, immettendosi nel principale in modo caotico, contribuisce ad aumentare la confusione. Raggiungiamo comunque il campo Bhrikuti, niente più che uno spiazzo pianeggiante sulle rocce, poco prima del tramonto, proprio mentre sta iniziando una leggera nevicata. Il maledetto campo si cela alla nostra vista sino all’ultimo per via dei continui saliscendi della morena. Il giorno dopo ci attende ancora una tappa disagevole di una ventina di chilometri che segue un sentiero franato per lunghi tratti, evidentemente in disuso da anni, tra discese repentine seguite da immancabili risalite. Questa valle è la stessa dove sorge Phu, ma la parte alta è ormai totalmente disabitata. Ai lati ammiriamo imponenti colossi come il Chako e il Pokhar Khang. È il nostro ultimo giorno di vera wilderness: a pomeriggio inoltrato il villaggio di Phu appare come un miraggio, col suo gompa nuovo di zecca dal tetto in lamiera che risplende a guisa di un gioiello incastonato nel punto più alto della collina. Abbiamo chiuso con la cucina da campo, è giunta l’ora di assaporare un bello stufato di carne. Ci viene preparato con degli sfilacci di yak scelti tra quelli appesi a seccare nella cucina del lodge che abbiamo scelto. Non è tenera, però è saporita: dopo sei giorni di zuppe e scatolette, la carne di yak con un bel contorno di patatine fritte sembra buona quasi quanto una leccornia. Quasi. Per fortuna c’è la birra Gorkha che ci aiuta a deglutire i bocconi!
Il ritorno
Arrivati a Naar, decidiamo nostro malgrado di rinunciare al giorno di riposo in programma perché l’Internet ritrovata ci ha informato che, dopo tanti giorni consecutivi di bello, il meteo sta virando rapidamente al brutto. Il Kang La, ultimo passo che ci separa da Manang e dalla conclusione del trek, è alto 5320 metri. Non esattamente il luogo ideale per farsi sorprendere dal maltempo. Avremmo potuto proseguire in discesa lungo la valle di Naar-Phu senza fare il passo, ma il panorama dal valico sulla barriera degli Annapurna è uno spettacolo che merita la fatica supplementare. Ormai siamo super-acclimatati e così impieghiamo solo cinque ore per superare il Kang La partendo da Naar e arrivando a Nawal: un record. Il desiderio di evitare la pioggia (e la relativa bufera di neve sul passo) ci mette letteralmente le ali ai piedi. Una notte e qualche birra artigianale dopo (introvabili prima della pandemia) e siamo a Manang, capoluogo della provincia di Gandaki, nella valle del Marshyangdi, ai piedi dell’Annapurna. Pur senza averlo programmato ci accorgiamo di aver concluso il trek con due giorni d’anticipo sulla tabella di marcia. Davide decide di restare per visitare i dintorni mentre noi due optiamo per finire in bellezza con una visita fuori programma al lago Tilicho, 4920 metri, situato sotto l'omonimo picco alto più di settemila metri. Il lago è considerato il più alto del mondo, ed è uno dei più estesi del Nepal. Nelle acque blu-celesti galleggiano gli iceberg che si staccano dal ghiacciaio sospeso sotto al picco. Da Manang al Tilicho occorrono due giorni tra andata e ritorno, esattamente quelli che abbiamo a disposizione. Facciamo tappa al Tilicho Base Camp in uno dei confortevolissimi nuovi lodge e, la mattina successiva, ce la prendiamo comoda per salire al lago. Durante la notte ha nevicato (mi vengono i brividi ripensando al Saribung e al Kang La) e così lasciamo che ci preceda il grosso della truppa, alzatosi alle quattro del mattino. Noi partiamo dopo una buona colazione, alle sette e un quarto. Arriviamo in due ore, in tempo per ammirare alla luce del giorno le sponde ricoperte di neve fresca, sotto un sole che timidamente fa capolino tra davanzali di nuvole che si specchiano nelle acque cerulee del lago. Intorno a noi ci sono tantissime persone, perlopiù giovani, famiglie e gruppi di ragazzi e ragazze nepalesi in gita (una novità!). Pochissimi i turisti stranieri. Colpisce il contrasto con le solitudini e i silenzi da cui proveniamo. Quasi tutti sono mal equipaggiati, ma li accomuna l’entusiasmo e la voglia di vedere e di conoscere per la prima volta le montagne di casa. Alcuni, per proteggersi dalla temperatura sottozero, vestono solo una felpa. Altri indossano scarpe da ginnastica avvolte nella plastica per impedire alla neve di entrare. Molti sorridono felici, sono il futuro, mentre Matteo e io rabbrividiamo, stringendoci nelle nostre costose giacche a vento in goretex. Si dice che il vero viaggio non preveda ritorno, ma non c’è Avventura senza chi torna per raccontarla e noi, nel nostro piccolo, siamo fermamente convinti di averne vissuta una.