Sapori di una terra lontana
Italia - Delhi - Jaipur
Quanti di voi hanno detto “Io prima o poi in India ci devo andare�
Io ero uno di quelli. Quasi ogni anno mi sfiorava l’idea di partire ma, per una ragione o per l’altra, la rimandavo.
L’India d’altronde non è per tutti, un viaggio da queste parti bisogna sentirselo e, soprattutto, è indispensabile essere pronti a viverlo nella sua essenza per poterne trarre i maggiori insegnamenti possibili.
Quando si sbarca in India, infatti, ci si trova in un mondo che nulla ha a che fare con quello a cui siamo abituati, un affresco corale suggestivo ma inesportabile. Niente di quello che si vive tra i suoi vicoli colorati e odoranti di incensi e tikka masala può essere trasposto altrove, nemmeno con la più fervida immaginazione.
Ma finalmente il momento era quello giusto e con una valigia piena di aspettative sono partito per quest’Avventura insieme ad altre quindici persone provenienti da tutt’Italia, isole comprese.
Lasciamo subito Delhi e dopo qualche ora di bus entriamo nel Rajasthan, dimora dei maharaja e delle loro imponenti fortezze. Questa è sicuramente la regione più evocativa tra quelle che visiteremo, un luogo che riuscirà ad assecondare la nostra immagine d’Oriente trasportandoci in una dimensione sospesa nel tempo, vicina alla leggenda.
Siamo nella parte nordoccidentale dell’India, tra il deserto e le pianure gangetiche, nel suo stato più grande e occidentale: 340.000 kmq (un po’ più dell’Italia) per 65 milioni di abitanti, la densità più bassa della Nazione, da ricondurre al fatto che il territorio rajasthano è occupato in gran parte dall’inospitale deserto del Thar con le sue evanescenti dune dorate e che le zone confinanti col vicino Pakistan sono militarizzate.
Questa è la “terra dei principi†o appunto la “terra dei Rajputâ€, quei favolosi maharaja, dominatori dalle antiche carovane che per più di mille anni, scorrazzando nel deserto, fondarono magnifiche città con fantastici templi dalle superbe architetture e residenze principesche che primeggiavano per lo splendore e la raffinatezza delle loro decorazioni. Un viaggio in queste terre diviene quindi anche un incontro con questa India epica e cavalleresca, testimonianza di un glorioso passato ancora presente.
Il Rajasthan è un vero e proprio caleidoscopio di palazzi sfarzosi, monumentali castelli, templi decorati come merletti e città d’oro che evocano ricchezze di altri tempi.
Tra l’altro non è inusuale visitandolo imbattersi proprio in quelli che sono gli eredi dei maharaja Rajput, gente che ha mantenuto nel sangue la fierezza di quel popolo che ha segnato la storia della regione, facilmente riconoscibili per i lunghi baffi, orecchini d’oro e grandi turbanti colorati. Basti pensare che il loro status di re fu mantenuto fino a tutta la dominazione inglese per poi essere perso con l’indipendenza indiana del 47; nel 1971 poi Gandhi li privò della rendita statale, unica loro fonte di sostentamento e, pertanto, molti tramutarono quei bellissimi palazzi in alberghi, gli haveli, dove ancora oggi si può soggiornare facendosi avvolgere in un’atmosfera di altri tempi.
Mentre percorriamo la lunga strada che ci porta verso la capitale Jaipur ci sentiamo già avvolti da un’aura onirica ed esotica. Dopo l’impatto un po’ disorientante con il caos magico di Delhi ci sentiamo finalmente come catapultati in una cartolina carica di meraviglia, una dimensione imperiale che incarna alla perfezione l’immagine collettiva dell’India dei tempi andati.
Il Rajasthan ci appare da subito molto di più di quello che potevamo immaginare. Lo visitiamo facendoci così condurre ai confini del tempo. A circa una decina di km da Jaipur si trova il Galta Ji, per noi la porta d’ingresso verso quella India autentica e dal fascino antico e recondito.
Il tempio risalente al XVIII secolo, dedicato al dio Sole e ad Hanumat, spirito dall’aspetto di scimmia, ci appare da lontano incastonato tra due irti speroni di roccia. Siamo lontani da quel turismo mordi e fuggi che ti scorre davanti senza emozionarti, quasi immersi in uno scenario dove la natura si fonde con la spiritualità . Questo non è un luogo che appare spesso negli itinerari di viaggio e, se si esclude la sacra Varanasi, è qui che la religiosità induista appare più manifesta che altrove.
Ci troviamo di fronte a un vero e proprio complesso monumentale con tetti arrotondati, colonne scolpite nell’arenaria rosa e pareti dipinte che ricordano l’architettura di un palazzo haveli.
Il Galta Ji, avvolto dalle verdi colline di Aravalli, è anche conosciuto come tempio delle scimmie e infatti qui questi animali sono sacri e la fanno da padroni: centinaia di macachi rheus di tutte le misure ed età scorrazzano liberi tra i giardini del tempio, coccolati e nutriti delle più svariate leccornie da turisti, quasi sprovveduti di fronte alla loro irruenza.
Incominciamo questo percorso che si snoda in circa 2km e mezzo e il cui cuore pulsante è costituito da un tempio a tre terrazzamenti, ciascuno con una grande vasca, le Galta kunds, contenenti l’acqua che sgorga dalla fonte più alta, la Gaumukh, una statua a forma di vacca.
Ancora oggi si crede che bagnarsi nelle sue acque purifichi da ogni peccato e queste, pertanto, vengono considerate sacre addirittura al pari di quelle del Gange. Il tempio è infatti da sempre luogo di meditazione per gli asceti induisti che qui eseguivano la “tapasyaâ€, ossia la meditazione profonda che portava all’autorealizzazione di sé stessi e quindi alla liberazione spirituale. Le vasche sono tre: la prima e più grande è dedicata alle donne, la seconda e più chiassosa dove i fedeli si tuffano tra schiamazzi e risate agli uomini e la terza, in cima al tempio, sembra riservata alle numerose scimmie che l’affollano. Qui si divertono a lanciarsi dai muri e tetti circostanti rendendo quelle acque impraticabili. Ripartiamo e dopo poco arriviamo finalmente a Jaipur che è conosciuta come la città rosa per il colore dei suoi monumenti. Rosa è infatti il colore dell’ospitalità e dell’accoglienza, scelto nella seconda metà del XIX secolo per dipingere i palazzi della città in onore della visita del principe di Galles, il futuro re Edoardo VII.
Jaipur
Finalmente è arrivato il momento di visitare questo gioiello, e lo facciamo con la nostra meravigliosa guida Vaseem.
La parte più bella della città è racchiusa in una cinta di mura con 8 magnifiche porte di accesso.
Il primo edificio che si incontra è l’Hawa Mahal, il palazzo dei venti, una meraviglia di arenaria rossa e rosa alta 15 metri, una sorta di alveare composto da 5 piani con balconi schermati e 953 finestre finemente decorate con fitte grate da cui un tempo le donne di corte potevano osservare le parate reali e la vita della città senza essere viste in quanto obbligate a rispettare le regole del purdah. Questa è la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne e che si attua o con la segregazione, come in questo caso o imponendo la copertura del corpo per nascondere pelle e forme, come col burqa.
Le finestre sono state costruite in modo tale che l’aria circoli naturalmente andando a condizionare il palazzo durante le lunghe e afose estati indiane e da qui il soprannome “palazzo dei ventiâ€.
Tappa successiva è l’Amber Fort, situato 11 km a nord della città nel mezzo di una collina che domina il lago Maota.
A questa fortezza si può salire a piedi o sul dorso di uno dei 106 elefanti che ogni giorno fanno la spola fino al forte per un massimo di 5 volte. Sembra strano ma i mahawat, ossia i conduttori di questi enormi pachidermi, sono molto attenti alla salute degli animali e quindi a non farli stancare eccessivamente.
Iniziato a costruire nel 1592, fu ultimato nell’arco di 138 anni durante il regno di svariati re e riflette, ovviamente, lo stile dei vari costruttori che si sono succeduti.
La particolarità è la contrapposizione tra la solennità della facciata e la raffinatezza delle decorazioni dei suoi interni.
Il Forte di Amber rappresenta il retaggio del glorioso passato della città di Jaipur e del Rajasthan. Pochi luoghi come questo sanno evocare i tempi degli intrighi di palazzo, degli aristocratici amori, dei sibillini cortigiani, delle battute di caccia alla tigre nelle foreste, del lusso e dello sfarzo sfrenato. Passeggiando lì in mezzo sembra quasi di rivivere quell’epoca magica. Il palazzo, in arenaria rossa e marmo, è suddiviso in aree fortificate concentriche; le sezioni principali sono quattro, ognuna col proprio portone d’ingresso e cortile, tutte accomunate dalla ricchezza dei materiali usati come il marmo, l’avorio e l’argento e le elaborate lavorazioni. Il primo cortile, lo Jalebi Chowk, era il luogo dove l’esercito teneva le parate di vittoria al termine delle battaglie; se ci si concentra sembra ancora di sentire i tamburi a festa che accoglievano i soldati. Qui si trova anche la Ganesh Pol, la porta di Ganesh, una struttura a tre piani che rappresenta l’ingresso al palazzo privato del maharaja e che è anche un perfetto set fotografico, se non fosse per le decine di persone che ci continuano a passare davanti. Ma una perfetta organizzazione criminale che vede Daniele e Danilo come poco discreti posti di blocco ci permette di averla tutta per noi per qualche minuto. Il secondo cortile, situato sopra le scale al primo livello, ospitava le udienze pubbliche, mentre il terzo era il luogo degli appartamenti privati del sovrano. Qui si trovano due edifici separati da un bellissimo giardino. La nostra attenzione viene attratta da quello a sinistra, il Palazzo degli Specchi, chiamato così perché impreziosito da pannelli di vetro intarsiati nei soffitti con alcuni specchi multistrato, di forma convessa e progettati in modo tale da sfavillare alla luce delle candele quando queste era in uso per creare un effetto scenico di rara bellezza.
L’ultimo cortile, il quarto, era quella della Zenana dove vivevano le donne della famiglia reale, tra cui concubine e amanti; in questo cortile ci sono vari salotti dove le donne risiedevano e dove il re poteva recarsi senza che nessuna delle altre ne venisse a conoscenza dato che tutte le camere si aprono su un corridoio comune. Bella vita il maharaja. Bella bella!
Ci spostiamo quindi sulla strada che collega il forte a Jaipur dove sulle sponde del Man Sagar, un lago artificiale, si adagia il Jal Mahal, più conosciuto come il Palazzo delle Acque, un suggestivo edificio di marmo a cinque piani di cui solo quello superiore è visibile tutto l’anno mentre i restanti quattro, invece, sono affidati proprio alle acque che, a seconda delle loro variazioni di altezza, li nascondono o li svelano. Costruito intorno al XVIII secolo è stato un sogno abbandonato fino ad anni recenti, quando all’inizio del 2000 è stato restaurato e portato all’antico splendore. Lo stile che lo caratterizza è il Rajiput, ossia un mix tra quello indù ed il mughal, i cui elementi distintivi sono quelle cinque torri, quattro delle quali a pianta ottagonale e sormontate da una cupola, che ne segnano il profilo. Ritorniamo in città e ultimiamo la visita con un piccolo gioiello della scienza, il più importante osservatorio storico del subcontinente indiano, il Centro Astronomico, il Jantan Mantar, costruito tra il 1727 e il 1734 a rappresentare uno degli esperimenti più innovativi per l’epoca. Pensato come luogo di incontro di diverse culture scientifiche ospita una ventina di strumenti costruiti in marmo e pietra locale utilizzati per l’osservazione astronomica ad occhio nudo, il più grande dei quali è una meridiana di 27mt la cui ombra misura il passaggio del tempo.
Jaipur - Agra
Lasciamo la Città Rosa e ci muoviamo verso est dove in serata raggiungeremo la cittadina di Agra.
Lungo la strada faremo un paio di fermate in luoghi altrettanto belli che si trovano nel mezzo del triangolo d’oro.
Il primo è Abhaneri, un bellissimo pozzo a gradini, struttura caratteristica di regioni dell’India del nord come appunto il Rajasthan o soprattutto il Guajarat il cui territorio è ancora più arido e pertanto era ancor più necessario cercare l’acqua in profondità . Ci troviamo davanti a questa meraviglia architettonica di 19.5 mt di profondità , che secondo una leggenda fu costruita in una notte dagli spiriti ma più probabilmente fu fatta edificare dal re Chanda fra l’VIII e il IX secolo. La sua geometria così regolare rendeva semplice l’accesso all’acqua durante i periodi di siccità : ci sono ben 3500 gradini disposti su tredici piani sulle cui pareti si notano incisioni e raffinate decorazioni che rappresentano la vita indiana e testimoniano il senso artistico del loro promotore.
In base al periodo dell’anno l’acqua si trovava in un punto differente e pertanto variava anche la quantità di strada da fare per rifornirsene. Questi, tuttavia, non fungevano solo da pozzi ma erano anche dei luoghi di incontro sia per la popolazione locale, che accorreva a ripararsi nelle lunghe e torride estati indiane dato che qui la temperatura era fino a 5° meno dell’esterno, che per i viandanti che con le loro carovane si fermavano per trovare vitto e alloggio come nei caravanserragli della Via della Seta. Troviamo quindi anche camere e spazi freschi, localizzati nel padiglione sull’unico lato non occupato dai gradini. Dopo averlo visitato ripartiamo verso Agra e a circa 40 km dalla nostra meta ci fermiamo a visitare Fatehpur Sikri, conosciuta come Città della Vittoria, cittadina costruita nel 1569 dall’imperatore moghul Akbar e capitale dell’impero solo dal 1571 al 1585 quando la casa regnante si spostò prima a Lahore e poi ad Agra. Fatehpur è una meraviglia architettonica, un luogo fantastico che nello stesso tempo rimane un pensiero irrisolto, un mistero illusorio, fondato sulle manie di grandezza di un imperatore che voleva rinnovare ogni cosa, dal regno alla religione. Visitiamo questa cittadella in arenaria rossa dalla bellezza decadente che si estende su 60 ettari, delimitata su tre lati da mura lunghe 6km, alte torri e ben nove porte di accesso. Fu costruita su livelli inclinati collegati tra loro con terrazze utilizzate per la costruzione dei vari complessi. Al centro spicca il suo palazzo simbolo, la moschea di Buland Darwaza che con i suoi 50 mt sintetizza la grandiosità a cui Fatehpur aspirava. Tra i tanti palazzi c’è la casa di Maryam, la residenza della madre del figlio di Akbar, l’unica dove sono rimasti gli affreschi originali, e il Diwan-i-am, la sala delle udienze pubbliche col trono rivolto verso est in quanto l’imperatore si ipotizza credesse nel “culto del soleâ€.
Siamo nel bel mezzo della tre giorni di festa musulmana e in giro c’è un quantitativo di gente non definibile e tutti, peraltro, vogliono farsi una foto con noi, soprattutto con Marina, del cui successo in India si parlerà per generazioni. Ho visto ragazzi scrutarla con lo stesso sguardo di un naufrago dell’Isola dei Famosi davanti al petto di pollo alla piastra, succulenta ricetta della chef Elisabetta Canalis.
Mentre cerchiamo di sopravvivere tra il caldo e questa improvvisa celebrità la nostra attenzione viene attratta dal mausoleo di Salim Chisti, il famoso santone che predisse la nascita dell’erede moghul, sulla cui tomba si esprimono ancora desideri sottoforma di tanti nastrini colorati.
Ovviamente non potevamo astenerci da questa pratica, sai mai che qualcosa prima o poi, anche per sbaglio, si avveri. Il problema sarà soprattutto per Mieke e Daniele in quanto uno ha versato i petali sul lenzuolo dell’altra; quindi, può essere che i desideri si avverino anche ma alla persona sbagliata! E speriamo che Mieke non abbia fatto al santone la stessa richiesta di Akbar che Daniele col pancione non ce lo vedo molto a suo agio.
Ripartiamo. Lasciamo il Rajasthan, la terra dei re, l’India più bella, un posto da sogno, uno scrigno luccicante i cui segreti ci si sono svelati ad ogni passo. La sua atmosfera regale è riuscita a mantenersi nei secoli, preservata, oltre che dalle architetture, dalle tradizioni che si sono tramandate attraverso la danza, la musica, il cibo, l’artigianato e, soprattutto, quelle genti, entusiaste di conoscerci e farsi conoscere.
Arriviamo ad Agra all’imbrunire.
Siamo nell’India del nord, in una di quelle che furono le capitali dell’impero moghul, la dinastia imperiale indiana musulmana più importante che durò dal 1526 al 1707.
Vengono considerati l’ultima forza unificatrice prima della conquista europea; la loro fine, infatti, aprì indirettamente le porte del Paese al dominio inglese.
Fondato da Babur e originario dei territori che oggi appartengono all’Uzbekistan quest’impero ha lasciato in India un marchio indelebile nella cultura, nell’architettura e nella mentalità . Erano una dinastia colta, amante della poesia e delle arti, che inaugurò un’era di insperata prosperità per il Paese, facendo diventare l’India l’economia più forte del mondo, roba che valeva un quarto del PIL mondiale. Ad Agra, città scossa, come peraltro tutte le altre del subcontinente indiano, da un’urbanizzazione forsennata e senza regole si trovano due tra i più bei gioelli architettonici lasciatoci in eredità dall’impero: il Taj Mahal ed il Forte Rosso, palazzo fortificato sede degli imperatori simile a quello visto a Jaipur.
Arriviamo in tempo per ammirare il tramonto dai Mehtab Bagh, i giardini che si affacciano sul Taj Mahal e poi andiamo a cena allo Sheroes Hangout Cafè, ristorante gestito da ragazze sopravvissute ad attacchi con acido, donne distrutte nel corpo e nel volto ma non nell’animo.
Il cibo è semplice ma non è il motivo per cui questo locale merita una visita. Lo straordinario lo fa l’incontro con queste ragazze, tradite perlopiù da parenti o comunque persone a loro vicine, spesso per aver rifiutato matrimoni combinati o avances sessuali. Sono donne finite ai margini di una società difficile come quella indiana, persone che hanno avuto difficoltà a ricominciare da capo e a ritrovare un equilibrio. Lo Sheroes per loro è stata l’opportunità di un riscatto, oltre che una fonte di reddito quasi insperata.
Venire a cena in questo locale non è un atto dovuto verso di loro ma un’opportunità per noi di crescita personale.
Agra - Orchha
Finalmente è arrivato uno dei momenti che più desideravamo da quando siamo atterrati in India: la visita al Taj Mahal, una delle sette meraviglie del mondo moderno, quel colossale monumento bianco, meraviglia di forme e dimensioni patrimonio Unesco dal 1983.
Il Taj Mahal è sinonimo di India, chiunque potrebbe riconoscerlo senza nemmeno averlo visto: il suo profilo, la sua cupola ed i minareti delineano infatti un’immagine ormai famigliare e iconica per chiunque. Non tutti sanno però che rappresenta il monumento all’amore per eccellenza in quanto custodisce una delle più belle storie d’amore al mondo e, per apprezzarlo ancor di più di quanto già con il solo sguardo si possa fare, occorre addentrarsi nel suo passato sognando ad occhi aperti e facendosi trasportare da una fulgida immaginazione. La sua costruzione fu infatti commissionata dal quinto imperatore moghul, Shah Jahan, per ospitarvi la tomba dell’amata terza moglie, Mumtaz Mahal, morta dando alla luce il quattordicesimo figlio dopo 30 ore di travaglio mentre era al suo seguito in una spedizione militare nell’India del Sud. Si narra che la donna non solo fosse talmente bella da far vergognare anche la luna ad apparire in sua presenza ma che fosse anche molto intelligente e generosa verso i meno fortunati. Ancora in vita aveva ottenuto dal marito quattro promesse: costruire un tempio, risposarsi per dare una nuova madre ai loro figli, essere sempre buono e comprensivo con loro e visitare la sua tomba ogni anno il giorno dell’anniversario della sua morte. Fu così che l’imperatore decise di far edificare il Taj Mahal in suo onore, un vero e proprio monumento funebre, il più grande mai dedicato ad una donna, la cui costruzione iniziò nel 1632 per essere completata in ventidue anni di duro lavoro dove furono impiegati più di ventimila uomini e quasi mille elefanti per il solo trasporto del marmo. Per dare accoglienza a tutta questa manodopera nei pressi del cantiere si formò una vera e propria cittadella, chiamata Mumtazabad in onore della regina defunta. Leggenda vuole che Shan Jahan, completata la costruzione, ordinò di tagliare le mani a tutti coloro che erano stati impiegati nelle maestranze, decapitare l’architetto e accecare gli artisti che avevano disegnato i progetti in modo da impedire che potessero costruire un’opera di pari bellezza, ma in realtà fu semplicemente fatto firmare loro un bieco contratto che glielo vietava. Si dice che il progetto originario di Shah Jahan fosse quello di arricchire il sito facendo costruire sulla sponda opposta del fiume Yamuna un edificio simile di colore nero che sarebbe dovuto diventare la sua di tomba e che i due mausolei dovessero essere uniti da un ponte d’oro. Tuttavia, il re fu deposto subito dopo l’inaugurazione del Taj Mahal dal figlio e imprigionato in una delle torri del forte di Agra. Pertanto, il suo rimase solo un sogno che accompagna da sempre questa struggente storia d’amore.
Il Taj Mahal è la rappresentazione fisica di qualcosa che un tempo ci è appartenuto, che sia un ricordo o un’emozione non lo so ma sicuramente qualcosa a cui un tempo tenevamo parecchio, magari qualcosa che abbiamo tenuto nascosto e che solo chi ci ha fatto brillare gli occhi ha potuto capire. Ricordo poche emozioni così vissute in viaggio.
Ci disperdiamo in quei giardini dominati da una grande fontana centrale nelle cui acque si riflette la cupola principale. Fu proprio qui davanti, su un’iconica panchina, che la principessa Diana si fece fotografare in una delle immagini che hanno fatto un’epoca: lei donna sola e tradita con alle spalle quel tempio che inneggia all’amore.
In un paio d’ore avremmo dovuto raggiungere la città medievale di Gwalior, ma in realtà ce ne impieghiamo il doppio. Per un motivo non ben precisato la nostra corsia di marcia è chiusa per soli 200mt e la polizia con una bastonata sul cruscotto ci invita serenamente a prendere una discutibile strada alternativa, da cui usciremo solo grazie all’abilità del nostro adorato autista che non si sa bene come è riuscito a non rimanere incastrato nei vicoli dimenticati delle bucoliche campagne indiane.Che poi c’è ancora da capire il perché ci abbiano fatto fare una deviazione, che in India ognuno occupa la corsia di marcia che preferisce indipendentemente dalla direzione, mucche comprese.
Arriviamo a Gwalior, a nominarla quasi nessuno sa dove si trovi, neanche chi in India c’è già stato. Tutti conoscono il triangolo d’oro e la città senza tempo di Varanasi ma in pochi sanno che proprio lungo la strada che collega queste principali località turistiche si trova questo borgo che nel passato è stata la culla di diverse dinastie, ognuna delle quali l’ha arricchita con regali strutture che sono andate a dominarne il paesaggio.
La sua epoca d’oro arrivo nel 1400, finita la dominazione turca con l’arrivo di un clan Rajput, quello dei Tomar
La principale attrazione e anche motivo della nostra visita è la sua fortezza arroccata sulla montagna Gopanci, considerata la più bella del Paese. Definito dal primo imperatore moghul Babur “la perla nella collana dei forti dell’India†è lungo due km e mezzo ed è realizzato nella solita arenaria rosa La approcciamo risalendo lentamente la collina in modo che quel palazzo edificato nel VII secolo possa svelarsi gradualmente ai nostri occhi, quasi sorprendendoci.
Lungo il percorso si trova un cartello che indica la direzione per raggiungere “lo zero più anticoâ€, ossia il punto dove sembra che questo numero sia stato rappresentato nella sua attuale forma numerica per la prima volta, fatto che porterebbe a pensare che sia una creazione indiana e non araba come invece si è sempre ritenuto.
Facciamo un rapido tour del forte e dei suoi templi e lasciamo Gwalior, la cui bellezza ci è giunta quasi inaspettata. Riscendendo la collina ammiriamo le ventiquattro statue monolitiche dei santi Jainisti che si trovano scavate nella roccia delle valli di Urwahi. Fatte datare intorno al XV secolo, alcune sono sedute nella classica posizione del loto, altre sono erette, la più alta arriva a 19 metri. Furono presumibilmente commissionate da una regina Tomar affascinata da quella religione fondata sulla non violenza. La prossima tappa è Orchha, città dell’India centrale con meno di 10.000 abitanti, una rarità che fa quasi notizia da queste parti. Questa sera ci divideremo in piccoli gruppi e andremo a dormire nelle case dei suoi abitanti per vivere un’esperienza un po’ insolita ed entrare ancora di più a contatto con la loro cultura, rendendo quest’esperienza unica.
Orchha- Khajuraho
Ci risvegliamo nella casa della famiglia che ci ha ospitato, una piacevole colazione in loro compagnia e, una volta riuniti tutti, partiamo alla scoperta di questa cittadina fondata nel 1501 da Rudra Pratap, primo re della dinastia dei Bundela, uno dei clan dei Rajput, che la fece diventare capitale del regno omonimo l’anno prima della sua morte.
Orchha significa “luogo nascosto†e non potrebbe essere diversamente data la sua collocazione che vede questa città senza mura adagiata su un’ansa del fiume Betwa, affluente del più famoso Gange.
Ci immergiamo per l’intera mattinata nella sua atmosfera tranquilla, camminando fra i dhak, alberi dai bellissimi fiori rossi che decorano quelle strade che si insinuano tra palazzi eccezionalmente ben conservati e templi che hanno perso i mecenati ma non i devoti. Sembra di trovarsi in un luogo disperso nel tempo dalla bellezza quasi struggente.
Nella piazza centrale si trova il tempio indù Ram Raja Temple. Dedicato al Dio Rama è l’unico dove questo viene venerato sia come eroe che come divinità . La particolarità è nel modo in cui viene rappresentato: con la spada nella mano destra e uno scudo nella sinistra, inusuale per gli indù. All’interno oggi si sta svolgendo una cerimonia di ringraziamento con centinaia di fedeli ammassati a portare doni e noi non possiamo che mischiarci a loro per qualche minuto per vivere da vicino quella deliziosa religiosità a noi tanto lontana.
Continuiamo la visita e raggiungiamo, attraversando un antico ponte seicentesco, il Forte di Orchha, l’attrazione principale della città con numerosi palazzi al suo interno. Il più antico è il Raja Mahal, residenza di re e regine coi suoi due cortili rettangolari perfettamente simmetrici caratteristici della tradizione artistica locale, ma il più spettacolare il Jahangir Mahal caratterizzato da sale labirinto in perfetto stile indo-islamico, un omaggio fatto all’imperatore moghul per aver dato l’indipendenza alla città . In questa città ogni passo è stata una scoperta.
Salutiamo Mr Hemant, la nostra bravissima guida, e partiamo in direzione Khajuraho, cittadina il cui nome deriva dal sanscrito e significa palme da dattero. Qui si conta il maggior numero di templi medievali induisti e giainisti dell’India e una leggenda locale afferma che fossero proprio due palme da dattero dorate le porte di ingresso a questo sito patrimonio Unesco dall’86.
Khajuraho - Varanasi
La sveglia suona che fuori è notte, notte fonda. Sono le 5.
Siamo tutti puntuali. O meglio, tutti tranne Alessia che è settata da giorni su un fuso orario personale. Che poi deve essere lo stesso di Nadia solo che la siciliana ha in camera il sergente Mieke che le detta i tempi limitando i danni.
Occhiaie alla mano e saliamo su delle jeep che ci porteranno verso il Panna National Park, dal 1994 entrato nella ristretta cerchia delle ventidue riserve della tigre nel Paese.
L’obiettivo odierno è ovviamente riuscire a scorgere la regina dei felini in quello che un tempo era una riserva di caccia della famiglia reale. La tigre è il predatore per eccellenza, nulla in natura, uomo a parte, rappresenta un pericolo per lei. Non vive nella savana africana ma nelle foreste asiatiche. È un animale elusivo e scaltro, predatore formidabile dal manto striato e dallo sguardo fiero, difficile da avvistare ma non impossibile.
Ci appostiamo e comincia una lunga attesa.
Lunga e inutile. Della tigre non se ne parla. Ritorniamo verso l’uscita del parco quando, all’improvviso, la natura comincia a svegliarsi, gli animali fanno presagire il loro spavento con urla che riecheggiano all’orizzonte. Ed ecco spuntare a pochi metri dalla nostra jeep un rarissimo leopardo. Ritorniamo soddisfatti in paese e andiamo a visitare quel complesso di templi edificati tra il 950 e il 1050 d.C. sotto il regno dei Chandela.
Occupano un’area di ventuno chilometri quadrati e sono divisi in tre gruppi: occidentali, orientali e meridionali.
Abbandonati nel XII secolo furono riscoperti dai britannici alla fine del XIX secolo ricoperti da una fitta vegetazione di palme da dattero. Degli 85 templi originari solo 22 sono sopravvissuti completamente intatti e questo è da ascrivere al fatto che la città nei secoli non fu oggetto di attacchi o saccheggiamenti.
Questi sono un esempio dello stile Nagara, caratteristico dell’India del nord in quel periodo. Sono costituiti da un corpo centrale con quattro santuari minori che si sviluppano in verticale ai quattro angoli del tempio principale.
Ma la particolarità di queste strutture, e anche il principale motivo per cui attirano i turisti, sono le sue sculture che, oltre a scene ascrivibili alla vita tradizionale e alla mitologia indiana, mostrano posture tantriche ispirate al Kama Sutra. In realtà solo una scultura su dieci ha tematiche legate al sesso ma questo non ha impedito loro di essere ricordati come i templi erotici di Khajuraho. Raffigurano amanti in ogni genere di atto sessuale. Peraltro, a ben guardare, anche i cavalli al tempo dovevano suscitare un certo fascino sull’uomo.
Le figure erotiche sono scolpite solo nelle pareti esterne e questo potrebbe essere attribuito al fatto che per giungere al cospetto della divinità occorresse abbandonare i piaceri della carne e le proprie pulsioni, quasi come se ci fosse un cancello simbolico per il contatto con il sacro
È l’una di notte e siamo al binario in trepidante attesa del treno. In India non sei mai certo di partire. L’utilizzo dei mezzi fra annullamenti e ritardi è quasi sempre un’impresa epica. Quindi quando lo sentiamo annunciare tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Intorno a noi ci sono centinaia di persone, qualcuna salirà sul nostro treno, altre sul prossimo, altre ancora tra qualche giorno. Alcune stanno semplicemente dormendo qui perché non sanno dove altro andare. Arriva il nostro treno, dai finestrini fanno capolino piedi e mani di persone che dentro sono stipate alla bene meglio negli ultimi vagoni, quelli senza aria condizionata. L’entusiasmo di Paola nel salire è lo stesso che avevo io quando aspettavo la versione di latino e usciva Tacito. La rassegnazione di qualcosa che sarebbe andato peggio di quello si sperava insomma. In realtà la seconda classe non è tanto diversa dai nostri treni. L’unica differenza è che non sembra di stare in India ma in Siberia.
In India il viaggio in treno è un’esperienza da fare, è uno spaccato di vita che va vissuto. Mentre faccio un giro per i vari vagoni è quasi come andare incontro a tutta l’umanità del paese in tutte le sue straordinarie sfaccettature in un susseguirsi di immagini che si sovrappongono e scompongono. Trascorriamo così una delle notti migliori del viaggio, dormendo come mai avremmo sperato.
Varanasi
Sbarchiamo a metà mattina a Varanasi, l’antica Banares, una delle dieci città ancora abitate più antiche al mondo, i cui primi insediamenti vengono fatti risalire a 3500 anni fa.
Oggi è diventata un importante centro commerciale e snodo ferroviario con importanti industrie ma viene ricordata soprattutto per essere la città più sacra per gli induisti, il posto dove almeno una volta nella vita loro devono recarsi per bagnarsi nel Gange. Secondo i testi sacri qui venne creato il mondo e questo sarà l’unico luogo che sopravviverà alla distruzione. Qua non ci sono monumenti da ammirare, la città si vive solo con le emozioni che trasmette. Varanasi è l’esempio più evidente di quel Paese delirante che è l’India: è un posto dove il presente odora di passato e il tempo stesso è la negazione di sé stesso. Lo capiamo appena sbarcati dal treno e ci dirigiamo alla nostra guest house vicino al fiume. Ci troviamo di fronte a una città intensa e frenetica, un posto sporco, tanto sporco. A Varanasi non c’è rumore. Qui per parlare bisogna urlare. È tutto uno strombazzare di clacson. Macchine, moto, tuk tuk...tutti perennemente attaccati al clacson per avvertire che loro stanno arrivando. Il fracasso è talmente tanto che fa parte del paesaggio. Poi c’è il caldo, opprimente, e pertanto quell’inferno di odori che ci accompagnerà per i prossimi due giorni lo si sente ancor di più. Varanasi si rivela da subito un attacco ai sensi: tutto è più forte, tutto sembra aggredire le nostre difese fisiche e, soprattutto psicologiche. Si arriva a sentirsi talmente sopraffatti da quegli odori, quei sapori, quei suoni, quel quantitativo di gente che sembra non avere mai fine.
Facciamo una breve sosta in hotel e poi cominciamo la visita di questa stupenderia con la nostra guida, un ragazzo che parla un ottimo italiano e che sarà il nostro Caronte nell’antica Banares. La nostra prima tappa è forse una delle più significative che si può vivere in città , il Ganda Aarti, un rituale di ringraziamento nei confronti di Ganga, la Dea del fiume, che viene svolto ogni giorno all’imbrunire al Dasaswamedh Gath. Vi assistiamo da una piccola barca al largo della cittadina. Alla cerimonia assiste tutta Varanasi, compresi turisti, pellegrini giunti da tutta l’India e i sadhu, ossia i santoni, che per l’occasione abbandonano le usuali pratiche ascetiche. La maggior parte ha i tilaka dipinti sulla fronte, un segno che contraddistingue specifici orientamenti religiosi fatto con pasta di sandalo, cenere e argilla colorata.
C’è gente ovunque, dalle panchine sulla riva alle imbarcazioni che sostano lungo quel fiume che comincia a luccicare di barchette di fiori e centinaia di candele, simboleggianti altrettanti sogni, che vengono affidati alla madre Ganga perché se ne prenda cura nel rito conosciuto col nome di puja. Più queste fiammelle andranno al largo maggiori sono le possibilità che si realizzino. Guardo la mia trasportata dalla corrente e spero che la rotta sia quella della Papua Nuova Guinea, o della Città Eterna, dipende dal desiderio che vorrà avverarsi e ho convenuto di esprimerne più d’uno per aumentare le probabilità di successo. Siamo tutti al cospetto dei pandit, i bramini studiosi di sanscrito che da un palco di legno antistante il fiume officiano la cerimonia. Soffiano dentro una conchiglia per eliminare le negatività ed inizia il rito. L’aria si satura del profumo del sandalo e del suono delle campane che accompagnano il bajan, il canto induista del Ganda Aarti.
L’indomani la sveglia suona molto presto. Con il buio, su un’imbarcazione e nel totale silenzio, risaliamo il fiume costeggiando alcuni degli 84 ghat di Varanasi, quelle antiche scalinate che scendono nel fiume sacro.
Una delle esperienze da fare è quella di andare a vivere la morte che ogni giorno si consuma in questi ghat sul fiume, il più importante dei quali è il Manikarnika Ghat dove è conservato un fuoco che arde da secoli.
Sono molti i luoghi in India dove i corpi vengono cremati in riva al Gange ma questo è speciale. Qui è dove Parnati, la moglie di Shiva, perse un orecchino e Vishnu, incaricato di recuperarlo, scavò l’ansa del fiume riempiendola col suo sudore.
I corpi vengono portati al fiume e posizionati più o meno vicino al Gange in base alla loro casta di appartenenza. Poi vengono immersi nelle acque per purificarli e poi bruciati sotto 3 quintali di legna. Le pire vengono sempre accese a partire da un tizzone di brace del giorno precedente, quasi a voler significare che quel fuoco simboleggia quello originario acceso un millennio di anni fa e ancora vivo. Qui nessuno piange, nessuno è triste. I figli primogeniti hanno la testa rasata e una piccola coda sulla nuca a simboleggiare il lutto. Le donne non sono ammesse, sono troppo emotive, piangono troppo e la tristezza non è gradita.
Ad un tratto i nostri sguardi vengono attratti da un individuo vestito di nero vicino all’acqua, è di spalle. La guida ci dice essere un cannibale e quello che ha in mano altro non è che un braccio staccato di nascosto ad uno dei morti sulle pire
Torniamo quindi sulla terraferma e facciamo un giro nella Varanasi vecchia col suo dedalo di vicoli strettissimi che sembrano inesplorabili labirinti dove templi riccamente elaborati si intervallano a palazzi ormai diroccati.
Protagonisti sono ancora i suoni, quelli dei clacson delle auto che scorrazzano senza minima conoscenza del codice della strada, dei campanelli delle biciclette e delle puje fuori dai templi, del vociare incontrollato di quella miriade di persone che ti osservano stupite, quel centinaio di occhi che ti senti addosso in ogni momento della giornata. E poi sempre quegli odori che ormai ci si sono cuciti addosso, di spazzatura, di incenso che esce dalle varie botteghe e di letame, tanto letame di vacca. Qua questo animale è sacro in quanto rimanda alla fertilità e all’abbondanza simboleggiando la generosità della Madre Terra.
Le vacche girano indisturbate tra i venditori ambulanti. In India non troverete nessuna macchina che inveisce contro quest’animale anche se gli occupa la carreggiata. Magari preferirà investire voi ma per le vacche arrivano a fare complicatissime manovre che non vadano a urtarne chissà quale loro sensibilità poi! Anzi le mucche vengono messe addirittura a riposare in mezzo alla strada in quanto le auto spaventano le mosche che non vanno così a disturbarle!
Ho già detto che l’India è strana?
Parliamo di una città di tre milioni di persone dove 2/3 vivono con meno di un dollaro ma adottano comunque una mucca e se ne prendono pure cura!
È finalmente arrivato il momento per alcuni di noi dell’ennesimo massaggio ayurvedico che ci regaliamo in questi giorni e, ad essere onesti, non c’è niente di meglio per rilassarsi dopo una giornata nell’Inferno dell’acustica mondiale.
Nadia, nel frattempo, in una crisi di shopping compulsiva, sta cercando di convincere con scarsi risultati un venditore di incensi a venderle per 200 rupie quello che costa cinque volte tanto. Terminiamo la nostra serata godendoci una cena vegetariana cucinata dall’associazione che avevo contattato dall’Italia per darci supporto in loco.
Torniamo in albergo con il tuk tuk e, come sempre in questa due giorni a Varanasi, malgrado l’ottima driver Wilma che tenta in ogni modo di fargli capire la strada da compiere ci abbandonano ad una distanza siderale dall’hotel accampando bieche scuse a cui ormai siamo abituati.
Varanasi - Nuova Delhi - Italia
Anche questa mattina la sveglia suona prima dell’alba.
L’ultimo saluto alla città lo diamo al tempio dove facciamo una lezione di yoga. Probabilmente Simone si trova ancora lì bloccato nella posizione del cane a testa in giù. Purtroppo, è arrivata l’ora di dirigerci verso l’aeroporto.
Questi due giorni a Varanasi ci hanno impregnato di vita.
Alla fine, quando ci si smette di chiedersi se quello che con così tanta violenza ti viene sbattuto in faccia ti piaccia o meno vuol dire che hai cominciato a sentirtene parte. E qua in faccia ci è arrivata qualsiasi cosa, per la proprietà transitiva quindi siamo diventati un po’ parte di tutto quello con cui ci siamo scontrati.
A pensarci bene non so se Varanasi l’ho vista o l’ho solo sognata.
Occhi ai finestrini dove scorgiamo il fumo delle pire che continua indisturbato a colorare l’orizzonte della città e atterriamo a Delhi. Ci troviamo nella capitale dell’India, quasi trenta milioni di abitanti che ne fanno la terza città più popolosa al mondo.
Anche Delhi ha tanto da offrire ma la sua grandezza e quel terrificante traffico rendono complicato qualsiasi spostamento.
Andiamo alla Humayun’s Tomb, la tomba voluta dalla moglie dell’omonimo imperatore moghul, poi diventata il mausoleo di famiglia con ben 150 tombe reali al suo interno. Rappresenta la prima tomba giardino dell’Asia costruita secondo il modello persiano col grande edificio che si erge in mezzo ai giardini divisi in quattro parti da passerelle e acqua che scorre in canali poco profondi, sullo stile di quello del paradiso descritto dal Corano. Realizzato a partire dal 1565 fu di ispirazione per la costruzione del più famoso Taj Mahal con cui condivide sia lo stesso impianto architettonico che lo stesso filo di devozione, solo che qui abbiamo una moglie votata al marito e non viceversa.
Proseguiamo il pomeriggio a Chandi Chowk, uno dei punti nevralgici della città vecchia, un insieme caotico di tutto quello che la vostra fervida immaginazione possa pensare: venditori ambulanti, negozi, baracchini di street food dove il colera è a metà prezzo, scimmie che saltano tra i tetti, le solite vacche che vagano per la strada indisturbate e quel rumore che ormai mi chiedo se c’è realmente o se ne sono così assuefatto che il mio cervello ci convive.
Trascorriamo l’ultima serata tutti insieme a festeggiare la fine di quello che è stato un Viaggio in India e, soprattutto, dentro noi stessi.
Mi sveglio che i ragazzi di Roma sono già partiti, a quest’ora staranno già sorvolando i cieli dell’Asia.
Il nostro aereo è in tarda mattinata. Nella via verso l’aeroporto ci fermiamo a Qutab Minar che con i suoi 73mt di altezza e 329 scalini rappresenta il minareto più alto del Paese, un esempio straordinario di arte moghul indo-islamica dell’architettura afghana. Ai piedi della torre si trova la moschea Quwwat-ul-Islam, la prima costruita in India, alla cui entrata c’è una scritta che dice sia stata ottenuta demolendo 27 templi indù. Non credo messa lì a caso. Nel cortile si trova un pilastro di ferro di quasi 1600 anni senza alcun accenno di ruggine, la cui leggenda dice che se si riesce ad accerchiarlo stando con le spalle ad esso il desiderio espresso si realizzerà . Forse mi dovevo impegnare di più nella lezione di yoga di ieri che la posizione da assumere per me che sono legato come pochi è troppo circense. Continuo a sperare nella barchetta di Varanasi che, a sensazione, sarà già affondata miseramente nel Gange. Purtroppo, è arrivata anche per noi l’ora di partire. Percorriamo per l’ultima volta quelle strade tanto trafficate e prendiamo il nostro volo diretto che ci riporterà a Milano. Mi siedo su quel sedile e svengo, non di sonno che per un narcolettico da aereo come me è cosa abituale, ma per la stanchezza. Questo viaggio mi ha provato. A pensarci non saprei bene cosa mi abbia portato a questa convinzione. Forse tutto. L’India è inquinata, sporca e faticosa, sia fisicamente che mentalmente. Ma è anche meravigliosamente ricca di fascino, storia e cultura. L’India è il luogo della sovrabbondanza, qui tutto è di più di quello che dovrebbe.
L’India è il paese delle contraddizioni del quotidiano: della vita e della morte, della festosità e del dolore, della povertà e dello sfarzo che coesistono da sempre in una sorta di equilibrio precario.
L’India è il paese delle caste, retaggio di un sistema gerarchico di stratificazione sociale abolito nel 1947 ma ufficiosamente ancora radicato nel territorio. L’India è rumorosa, tanto rumorosa. Questi sono suoni che ti trapanano le orecchie: clacson, musica, campane e poi le urla della gente. Gli indiani pensano che “più rumore fai e più il loro Dio si sentirà amatoâ€. E a quanto pare loro vogliono amare molto, troppo. Ahh quanto amano!!!
L’India è colorata, ma non con colori normali. Qui è tutto acceso, smagliante, incandescente quasi violento.
Noi non siamo abituati a tutto questo.
L’India non è per tutti.
Chi arriva in India deve essere pronto.
Questa non è una vacanza ma un’esperienza di vita.
Bisogna farsi trasportare dalla sua aurea magica, farsi vivere da quella cultura, gustarla e assaporarla anche e soprattutto nelle sue stranezze.
Solo così un pezzo di India ti rimarrà dentro, per sempre.
E così è stato per noi.
Che viaggio che abbiamo fatto. Che India che è stata questa India.
A presto, al prossimo bellissimo viaggio.